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Lecce, gli "schiavi delle angurie"? Sfruttati dagli immigrati

Claudia Osmetti
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Sono finiti assolti tutti gli imprenditori agricoli di Nardò, in provincia di Lecce, accusati nel 2017 di caporalato e riduzione in schiavitù. Dopo undici annidi processi, un rinvio in Cassazione, una vicenda finita sui giornali e pure coi titoloni a caratteri cubitali (perché, tanto per cominciare, lo sfruttamento di chi ha più bisogno, in questo caso si parlava di migranti, è una di quelle cose che indignano e che è bene facciano indignare e, successivamente, perché il primo grado era stato fermo, deciso: per la prima volta in Italia aveva riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù), ecco, dopo undici annidi avvocati e carte bollate e pronunce dei tribunali, sono rimaste in piedi solo quattro condanne. Ad altrettanti “intermediari” che, però, sono tutti caporali magrebini.

ASSOLUZIONI
Assolto, invece, Pantaleo Latino, che dagli inquirenti era stato accusato di essere a capo dell’organizzazione. Assolto Lucio Mandolfo. Assolti Marcello Corvo e Giovanni Petrelli e assolti anche cinque nordafricani: sono stati condannati, invece, gli altri quattro, per lo sfruttamento dei propri connazionali e dei braccianti del Leccese. Per le cronache è passato alla storia come il “processo Sabr”, dove Sabr sta per Saber Ben Mahmoud Jelassi, detto Sabr, appunto, uno dei protagonisti dell’intera vicenda che si è beccato cinque anni già nel 2019. Sono quasi dodici anni fa quando la procura pugliese inizia a indagare: il campo (propriamente) è quello della raccolta delle angurie e dei pomodori, più delle angurie però. Lì, tra le campagne a due passi da Gallipoli, tra Copertino, Leverano, Porto Cesareo, Veglie e (non a caso) Nardò, c’è il distretto agricolo d’eccellenza per le angurie. Quelle che crescono in zona si vendono in mezza Europa. Il sole, il caldo, le temperature perfette: ma anche un sospetto, che s’insinua, che diventa una denuncia e poi un faldone giudiziario sul quale c’è scritto “associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento e alla riduzione in schiavitù dei migranti”. Periodo dei fatti (contestati): tra il 2008 e il 2011.

Tra le parti civili che si costituiscono a processo c’è anche Yvan Sagnet, un camerunese che ha capeggiato uno sciopero dei braccianti a Nardò e che, dopo, si è fatto portavoce di quella battaglia anche a livello internazionale. La prima sentenza (di condanna, per tredici imputati in tutto) arriva che è il 13 luglio del 2017: il clamore è nazionale in virtù di quel reato che, prima, non era mai stato letto in una corte italiana. «Una svolta decisiva che apre un importante spiraglio nella difesa dei diritti e della dignità umana», dice senza girarci attorno il presidente dem della Regione Puglia, Michele Emiliano. E in termini generali ha ragione: approfittarsi, utilizzare, trarre profitto fino allo sfinimento di chi è più debole, di chi è più sfortunato, di chi in Italia è arrivato su un gommone della speranza e si è ritrovato in una baracca e con pochi spicci in tasca è un atto vile prima che criminale. Solo che i tribunali fanno il loro lavoro e quindi sentenziano in punto di diritto e con tre gradi di giudizio. Solo che due anni dopo, ad aprile 2019, la corte d’assise di Lecce ribalta ogni cosa e cancella quelle pene tra i sette e gli undici annidi carcere: tutti assolti.

 

LE REAZIONI
Non ci sta la procura, non ci sta il sindacato della Cgil, non ci stanno le associazioni come la Finis terrae, non ci stanno i lavoratori che chiedono (e ottengono) un nuovo processo. A marzo dell’anno scorso la Cassazione annulla la sentenza dell’appello e riapre l’iter davanti alla corte d’assise di Taranto: l’epilogo è di questi giorni.

 

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