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Luiss, povera università: chiama Paola Cortellesi e scimmiotta Harvard (che proprio ora crolla)

Fausto Carioti
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Quando si parla di declino della classe dirigente italiana non è solo a quella politica che bisogna pensare. Ogni élite sta dando il proprio apporto, nessuna è immune, di certo non lo sono quelle dell’imprenditoria e dell’accademia. Non fa eccezione l’università romana di Confindustria, la Luiss, intestata a Guido Carli, che chissà cosa avrebbe da dire su certe scelte. Ieri la Luiss, che doveva celebrare l’inizio dell’anno accademico, ha preferito celebrare Paola Cortellesi. L’«ospite d’onore» dell’evento più importante dell’anno è stata l’attrice, sceneggiatrice e regista di “C’è ancora domani”. La quale non si è mai laureata, si iscrisse alla facoltà di Lettere e abbandonò gli studi, e non è proprio il miglior biglietto da visita con cui un’università si può presentare agli studenti e alle famiglie che pagano le rette, ma questo è il meno. Peraltro, Cortellesi ha fatto bene quello per cui era stata chiamata: un simpatico show sul tema del femminismo, nel quale ha parlato di Biancaneve e Cenerentola, facendo ridere la platea.

Insomma, il problema non è lei, ma chi l’ha chiamata e il motivo per cui l’ha fatto. Lei è la spia sul cruscotto, la lucina rossa che ci avverte che abbiamo un problema. Ossia che quel modo “americano” di intendere l’università come un continuo inchino ai dogmi del politicamente corretto ha preso piede in Italia e fatto breccia persino nell’ateneo in cui, in un tempo non lontano, il primo compito dei professori, scelti tra i migliori pensatori liberali e liberisti, era togliere dalla testa delle matricole le pigne anti-capitalistiche con cui molte si presentavano lì.

 

 

 

Cortellesi ospite d’onore dell’inaugurazione dell’anno accademico è la versione italiana del fenomeno che si è visto nella californiana Berkeley, ad Harvard e nelle altre università d’oltreoceano, dove non si può più salire in cattedra se prima non ci si genuflette in pubblico dinanzi ad ogni possibile «diversità», purché certificata dall’ideologia “woke”. Una cultura fondamentalista che si è infiltrata anche nell’ateneo confindustriale, e a dimostrarlo, prima ancora dell’attrice romana, sono le richieste fatte agli studiosi che aspirano ad un posto di professore di qualsivoglia livello. Elemento imprescindibile della loro candidatura, avverte la Luiss, da adesso in poi dovrà essere lo «Statement on diversity, inclusion, and belonging», ossia la «Dichiarazione sulla diversità, l’inclusione e l’appartenenza». Ennesima scimmiottatura delle pratiche adottate negli atenei più discussi degli Stati Uniti.

L’università di Harvard spiega bene cosa sia questa dichiarazione e come debba essere compilata: «Una presa di posizione curata e narrativa, di solito lunga una o due pagine, che descrive i propri successi, gli obiettivi e l’approccio per promuovere l’eccellenza in termini di diversità, inclusione, equità ed appartenenza come insegnante e ricercatore nell’istruzione superiore». Lo stesso ateneo consiglia di fornire «prove concrete» del proprio impegno e dei risultati ottenuti. Identica richiesta che appare ora negli annunci con cui la Luiss si rivolge (ovviamente in inglese) agli aspiranti professori: chi si candida è pregato di «includere contributi passati e attuali» in materia di diversità, inclusione eccetera, «nonché la visione ed i progetti riguardanti tali aree». E questo per ogni posto, dalla cattedra sui Cambiamenti climatici (c’è anche questa) ad un ruolo di assistente in Finanza aziendale.

Puoi avere un curriculum accademico di tutto rispetto, ma se non hai nulla di interessante da raccontare sul modo in cui hai saputo essere inclusivo nei confronti di qualche diversità, l’incarico te lo scordi. E questo, per triste ironia, proprio nel momento in cui il sistema ammirato e scimmiottato sta venendo giù. Le dimissioni di Claudine Gay dalla presidenza di Harvard, inevitabili dopo che una parlamentare le aveva chiesto se «chiamare al genocidio degli ebrei viola il vostro Codice di condotta» e lei aveva risposto «dipende dal contesto», hanno rivelato tutto il marcio e l’ipocrisia di quel regime, che da anni mette «diversity» ed «inclusion» prima di ogni valore accademico. In Italia non siamo a simili livelli, nemmeno alla Luiss, ma visto qual è il modello di riferimento delle nostre migliori università, e la brutta fine che ha fatto, preoccuparsi è il minimo. 

 

 

 

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