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Tasso, i genitori difendono chi occupa? La reazione dei prof della "Roma bene"

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Roma, Parioli, dialogo immaginario tra un genitore progressista e il figlio ideologicamente svogliato, prima dell’occupazione d’un perturbante liceo romano. «Giangiacomo caro, hai messo tutto in cartella? Il libro di latino, il Rocci, lo striscione “Preside fascista sei il primo della lista” con la scritta cubitale tipo Leonkavallo ?». Giangiacomo sbuffa: «Sì Papi, ho messo tutto, ma...». Papi insiste, eccitato: «E il tirapugni? Te lo sei portato, il tirapugni, ché magari c’è un bell’assalto della pula?»; «La pula? Papi come parli?». «E il passamontagna, figliolo, ce l’hai?»; «Papi, no dai, il passamontagna no...»; «Giangi caro, fidati: il passamontagna serve, ti nasconde quando srotoli lo striscione dalla presidenza occupata e fai il segno del dito medio: sennò ti riconoscono e che figura la mamma, al circolo del bridge». Giangi, poverino, sospira. Papi lo congeda spartanamente: «Ora vai, stai lì un paio di settimane, barricati in aula magna ricordati degli slogan di Lotta continua, se vuoi ti do dei libricini di Sofri...». «Chi è Sofri, Papi?”. «Lascia stare. Instagramma la rivoluzione dal cesso. E metti in copia Elly Schlein». Hasta la victoria, Giangi. E così Giangi –lacrime agli occhi ma non di commozione- viene spinto alla gioiosa occupazione del Liceo Tasso, nel cuore della Roma altoborghese. Alè.

Questo clima si respira tra la classe dirigente con nostalgie barricadere anni 70, e i figli ridotti al rango di spettatori d’una rivolta durata una settimana, per un movente ancora tutto da capire: una protesta contro il governo? Contro il ministro Valditara? Contro Israele? Sicuramente contro le armi in Ucraina e, genericamente contro la Meloni fascia. Ma la sceneggiatura della scuola radical chic espugnata viene descritta con arte su Repubblica da Paolo Di Paolo, in un reportage che trasferisce in classe l’immancabile lotta di classe. Una classe sinceramente dem, di genitori «giornalisti, avvocati, editor, militanti politici anche di lungo corso – classe dirigente, per stare al succitato cliché – ferocemente divisi in fazioni, organizzati in chat e contro-chat come in bande, agit prop per interposta persona. Difendono, legittimamente, i diritti della prole, ma con un piglio da barricata», scrive Di Paolo, scrittore montanelliano prigioniero del quotidiano più schleiniano del mondo.

 


Giusto ieri, su queste colonne, parlavamo di una sinistra prigioniera della sindrome de La terrazza di Scola; ora siamo al sequel, ma più dalle parti di Nanni Moretti. Dietro la storia del Tasso riverbera, in realtà, la vicenda d’una socialdemocrazia perduta dietro feticci antichi ma sempre impunita. La differenza con le vecchie occupazioni dei licei delle canzoni di Venditti, qui sta nei fatti inediti. Per una volta, il finale è legge & ordine. Per gli occupanti della scuola fioccano i 5 in condotta e i «10 giorni di sospensione» (contemporaneamente vengono fissate pene più severe per gli eco-vandali). Sanzioni che il buon preside del Tasso, Paolo Pedullà, sottrae ad ogni strumentalizzazione politica, nonostante venga omaggiato di camicie nere gonfie di sottintesi. E, qui, per la prima volta a memoria di cronista, il dirigente scolastico è sostenuto in una lettera firmata da più di metà del corpo docente. Missiva che denuncia: «Basta ai figli protetti dai padri!»; e che stigmatizza la decisione «presa nell’ambito dei collettivi politici da un manipolo di studenti che impone la scelta a tutti gli altri e nottetempo entra a scuola bloccando la didattica curricolare a vantaggio di lezioni tenute da sedicenti rivoluzionari».

 

 

L’epilogo della protesta, scandita da «musica, balli, birra e spritz», culmina nella «conta dei danni» con denaro pubblico speso per sanificare i locali. Sicché, ecco partire le sanzioni. Riguardano solo 170 studenti su 1000. Ma, in un riflesso pavloviano, scattano i padri ribelli e scattano pure i nonni della generazione di Luciana Castellina «sbalordita» perché nei programmi scolastici non s’introduca il transfemmismo. E si invocano centinaia di sit in sparsi per la penisola contro «le squadracce fasciste» e i prof meschini strappati alla pagine di Domenico Starnone. So’ ragazzi. Capre, ma ragazzi. Epperò, stavolta, finisce che chi rompe paga; e molti studenti si autodenunciano, e molti altri non lo fanno e i genitori s’incazzano e si buttano nella «caccia all’imboscato».

 

 

Uno spettacolo di stupendi delatori delle ideologie smarrite. Il finale della pochade passa dalla nostalgia dei genitori comunisti in cachemire, alla nostra. Ricordo i teneri momenti in cui, mentre le avanguardie dei movimenti studenteschi annunciavano le scuole a ferro e fuoco; be’, mio padre militare di carriera mi raccomandava alla prof al Liceo Maffei di Verona. «Se mio figlio accenna all’idea di occupazione, lo picchi, lo picchi pure» diceva, sorridendo, papà «a casa penso io poi a spezzargli le gambe». E, amabile, stringeva la mano alla docente mentre, fuori, tra le urla, si preparavano al lancio di bombe-carta. Da allora, ho sempre dosato le presenze nei cortei. E, per spirito di sopravvivenza, ho accuratamente evitato di chiamare “Giangiacomo” i miei figli.

 

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