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La cultura di oggi: da arte a distrazione

Ginevra Leganza
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In principio furono la letteratura, la musica, il grande cinema. Vennero poi la tivù, le serie tivù, la narrativa e tutte quelle cose da professorine scapole che soppiantarono le muse. Arte prima, intrattenimento poi, ed eccoci infine a oggi.

Nell’ era della distrazione di massa ossia nell’ era del loop instagrammatico e di TikTok dove pesce grande (il reel) mangia pesce piccolo (lo streaming). Ed è questa, all’incirca, la parabola tracciata da Ted Gioia, critico musicale di Palo Alto nonché proprietario d’una grande raccolta di materiale di ricerca sul jazz, che s’incarica di saggiare “Lo stato della cultura nel 2024”. Vasto programma, direte. Eppure la sintesi è azzeccata: l’intrattenimento ha inghiottito l’arte, dice Gioia, e la distrazione ha inghiottito l’intrattenimento. Il New York Times la riprende, tale sintesi, e l’approfondisce in termini di junkification della cultura americana.

 

 

 

O come dire, dissoluzione delle lettere, marcescenza delle opere. In altre parole: decadenza del cinema, della sinfonia, del romanzo – sia esso storico, realista, on the road – ma ancor più, si diceva, morte dell’intrattenimento. Perché il punto interessante è proprio questo. Ed è il fatto che siamo persino superati, noi snob, ad alzare il sopracciglio se la collega ci parla della Martha di Baby Reindeer manco fosse la Marchesa de Merteuil. Siamo superati quando ancora pensiamo che i binari siano due – arte e passatempo – e non ci accorgiamo invece che l’industria dell’entertainment è caracollante anch’essa.

Che i filmetti e le serie tivù – grasso che cola rispetto a TikTok – sono in crisi. Ted Gioia, nel saggio pubblicato su The Honest Broker, una guida culturale supportata dai lettori (Gioia si lamenta ma forse non sa che al paese nostro, in Italia, mica abbiamo lettori di saggi, meno che mai paganti; semmai abbiamo lettori di titoli, a gratis, che polemizzano senza leggere i pezzi, ecco, Ted Gioia, dicevamo, nel suo saggio, mette in fila i dati. Nel magico mondo Disney, per dire, a eccezione della paga del CEO Bob Iger – tarata ancora sui castelli incantati – “tutto è ridimensionato”.

Così in Paramount, scrive, che ha appena licenziato 800 dipendenti, e in Universal che sta rilasciando film in streaming dopo sole tre settimane dall’uscita in sala. E che dire, ancora, della mitica Warner Bros? L’industria che in Italia, in eroica opposizione a TeleMeloni, ha messo in piedi Canale 9 altresì noto come il Salon des Refusés... Ecco, anche Warner Bros, scrive Ted Gioia, fa più soldi cancellando i film che non rilasciandoli. Ma l’intrattenimento è un mondo. E le cose non vanno meglio per il business televisivo, che dopo decenni di crescita costante, negli Stati Uniti, ha battuto il capo nel 2023, anno in cui il numero di serie e sceneggiati ha iniziato a ridursi. Anche se il fondo più basso – era prevedibile – lo tocca la musica. Che a leggere i dati lascia tramortiti.

Una casa discografica come Sony, solo per fare un esempio, investe oggi nel catalogo di Michael Jackson 1,2 miliardi di dollari. Cifra che mai sarebbe stata investita nel lancio di un nuovo artista. E non perché – correva l’anno 2024 – Jackson sia necessariamente meglio dell’ultimo arrivato. Ma perché nessun nuovo artista vale sul mercato quanto un vecchio e nessuno buca lo schermo come lo sconosciuto su TikTok(Tak). Ed eccoci al punto, dunque. Ché se l’arte è tornata nelle sue nicchie, l’intrattenimento ha chiuso con l'età dell’oro e ha passato la mano al pesce più grande e più incontrollabile: il social network.

L’ultimo stadio della cultura, spiega il critico musicale, è la distrazione. O, come dire, il divertissement che prelude alla noia e che però – attenzione – è più d’un semplice trend giacché si basa sulla chimica del corpo. La distrazione, e cioè il videino, in realtà può durare per sempre (altro che dieci secondi!). Perché il videino (vulgo: reel) non attiene più a una tendenza ma a una tossicodipendenza. Parola, oltre che di Ted Gioia, dell’autrice di Dopamine Nation Anna Lembke, psichiatra della Stanford University che suggerisce ai pazienti il «digiuno di dopamina». E dunque il completo distacco, per almeno un mese, dal dispositivo che avviluppa nel gorgo del piacere infinito – video su video, onda su onda – il cui unico esito è poi la noia o, come dice Lembke, l’anedonia.

Ossia il declino della felicità che, stando al World Happiness Report, sta piegando oggi le società tecnologicamente avanzate (al che verrebbe in mente l’ultimo opuscolo di Guido Ceronetti contro «la memoria elettronica, il libro disanimato, la Technology che stalinifica il pensiero abbrutendo la gioventù e l’infanzia”, ed è sempre junkification). E il fatto insomma è che il reel non piace solo alla nostra testa ma al corpo intero. E il problema, ancora, è che il reel piace a tutti, prende tutti, a prescindere dalla testa e dal q.i, appunto, essendo un fatto di fisica, chimica e dopamina. Sicché c'è poco da alzare il sopracciglio, noi snob, se al confronto con la skincare su TikTok (che tutti seguiamo) pure Bridgerton, oggi, ci pare William Shakespeare.

 

 

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