L'asilo in gita in moschea: la Chiesa in silenzio, va bene così?

Per le gerarchie cattoliche italiane è tutto normale. Ma la predicazione di quell’imam è lo specchio delle sfide cui dovrà rispondere il nuovo Papa
di Fausto Cariotilunedì 5 maggio 2025
L'asilo in gita in moschea: la Chiesa in silenzio, va bene così?
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La storia dei bambini dell’asilo del trevigiano portati in moschea a pregare inginocchiati in direzione della Mecca non ci parla solo della scuola e della politica. Dice molto, purtroppo, anche della situazione in cui si trova la Chiesa italiana oggi, dopo dodici anni di papato di Francesco e in procinto di affidare le proprie speranze di sopravvivenza a un nuovo pastore.

Perché stavolta non siamo davanti all’inchino di qualche laico che subisce il fascino dell’islam o al gesto di un ignorante interessato solo ad apparire inclusivo e dunque moderno. La Scuola dell’Infanzia “S. Maria delle Vittorie” di Ponte della Priula è una scuola religiosa.

Cattolica non solo nel nome, ma nel midollo, come rivendica nel proprio Piano triennale dell’offerta formativa, il documento con cui ciascun istituto si presenta alle famiglie e al resto del mondo. «La nostra Scuola dell’infanzia», scrivono i suoi responsabili in quelle 48 pagine, «è una scuola di ispirazione cristiana, nella quale il Progetto Educativo sta alla base della proposta educativa che si ispira al Vangelo di Gesù e quindi è ancorata a una precisa visione della vita e della persona». Questa «identità cattolica», spiegano, «emerge chiaramente nello Statuto della scuola, nel suo Progetto Educativo; nella proposta culturale; nella testimonianza personale di tutta la Comunità Educante». Per questo, si legge ancora in quel documento, i “livelli essenziali delle prestazioni” includono lo «scoprire la persona di Gesù di Nazareth come viene presentata dai Vangeli e come viene celebrata nelle feste cristiane».

Quell’asilo, insomma, non prende alla leggera la religione cattolica: è un pezzo della Chiesa italiana. E nel suo piccolo, piaccia o no, è un campione affidabile, perché la rappresenta senza distorcerla. Lo certifica un monsignore, Dino Pisolato, che è stato a lungo direttore della Caritas diocesana e vicario del patriarca: commentando l’accaduto col Corriere del Veneto, benedice l’iniziativa perché, ammonisce, «Dio non fa distinzioni qualunque sia il suo nome!».

Tutto bello, quindi, ciò che è avvenuto il 30 aprile nella moschea di Susegana. Bello pregare Allah inginocchiati, «davvero emozionante», come si legge sulla pagina Facebook della scuola, l’imam che indottrina i piccoli alunni illustrando i cinque pilastri della sua religione. Il primo dei quali – può essere utile ricordarlo a chi ritiene comodo sorvolare – è la «shahada», la testimonianza di fede degli islamici: «Non c’è altro dio all’infuori di Allah, e Maometto è il suo messaggero».

Così da una parte, quella cattolica, s’insegna che a Dio non importa come lo si chiami, qualunque nome gli va bene. Con buona pace dei Padri della Chiesa e dei Concili che fissarono e ribadirono il dogma «extra Ecclesiam nulla salus», fuori della Chiesa non c’è salvezza dell’anima: anticaglie, principi che si ritiene giusto reinterpretare alla luce dei valori moderni. Dall’altra parte, quella islamica, si difende e si predica in casa dei cristiani, con la loro complicità, l’unicità del proprio dio e il ruolo del suo guerriero e ultimo profeta, e tutto questo non è anticaglia, ma orgoglio per la propria fede. Più che un incontro tra religioni, un’apertura a senso unico, per non dire una resa incondizionata. Del resto: se al Dio dei cristiani non importa essere chiamato col nome di Allah, dov’è il problema? Giusto raccontare e capire ciò che ha fatto quell’asilo del trevigiano, allora, e dibattere sull’episodio, purché lo si inquadri per ciò che è: non un’anomalia, ma una scelta considerata normale nella Chiesa di oggi. Che infatti non la condanna, ma tace e guarda altrove; oppure, come quel monsignore, parla per dare il proprio placet. Del resto, è la stessa Chiesa che non è intervenuta quando un’enorme bandiera palestinese è stata issata sul duomo di Milano (silente dinanzi alla profanazione la diocesi del capoluogo lombardo), guidata da quel Vaticano che nel 2019, durante il sinodo sull’Amazzonia, collocò nei propri giardini le statuette raffiguranti la Pachamama, la divinità incaica della madre terra, sotto la guida di un pontefice che tante volte ha redarguito i cattolici affinché non facessero «proselitismo».

È in questa situazione che si troverà presto catapultato il 267° papa. Avrà davanti un popolo che, almeno in Italia e nel resto d’Occidente, mostra – comprensibilmente – di avere sempre meno certezze di fede. E ci sarà quella grande domanda cui dovrà rispondere: come si rafforza la fede di questo popolo? Tracciando confini più netti con le altre religioni e con la morale laica o sfumando ancora di più ciò che resta delle vecchie linee? Problema che l’islam non si pone, come ci ha appena dimostrato l’imam di Susegana. A modo suo, un valido insegnante.