L’immagine del rider che consegna sotto il caldo sta diventando un tema di discussione dopo che una delle multinazionali del delivery aveva “prezzato” le sofferenze del caldo: un bonus da 5 centesimi se siamo sui 36 gradi; 10 centesimi se si va a 38; 20 se il termometro tocca i 40 gradi. Per fortuna sono tornati indietro per non finire intossicati dalla polpetta avvelenata. Il rider investito dal pirata della strada o il rider che consegna in situazioni meteo avverse come accadde a Bologna con l’alluvione in corso o adesso con il solleone: una foto, un video e parte il dibattito animato dal sindacalista indignato (tre anni fa il Concertone del Primo Maggio fu sponsorizzato da una di queste multinazionali, ma va beh...). La questione comunque resta. La questione però è un po’ più articolata dell’umiliante bonus di Glovo ai lavoratori, perché si innerva in uno schema dove a essere in pericolo è il valore generale della ristorazione.
Tutti pensano che il ristoratore con le consegne a domicilio ci guadagni tanto. Non è così. Intanto un ristoratore ha sul groppone tutto il carico dei costi e del rischio d’impresa vero, poi ha un canone da pagare per stare sulle piattaforme (talvolta ne deve avere due per reggere la concorrenza) e soprattutto ha la penalità delle loro controprestazioni diluite nel tempo, perché mentre il cliente paga il servizio di delivery subito, la multinazionale non paga il ristoratore con la stessa velocità. Ma il ristoratore la spesa la deve pagare subito, così come l’affitto, le bollette, i servizi bancari. E spesso deve pagare pure il personale che lo aiuta in cucina o in sala, perché oltre alle consegne ci sono i clienti in sala. Quando ci sono. Già, perché non sempre i coperti fanno tornare i conti. Ricapitolando. Il ristoratore ha i costi fissi (personale, affitto, bollette, la spesa), ha la manutenzione della cucina e degli elettrodomestici, ha i costi bancari e delle carte di credito e ha l’abbonamento con le catene del delivery. Inoltre ha l’alea delle ispezioni: quelle fiscali, quelle del lavoro e quelle igienico sanitarie; sacrosante sia chiaro, ma qualcuno un giorno ci spiegherà perché queste multinazionali possono pagare meno tasse sul lavoro del ristoratore, possono trattare i lavoratori come abbiamo visto e non rischiano coi Nas: chi controlla infatti questi box operativi h 24?
Quali sono le condizioni igieniche? La multinazionale del delivery inoltre non ha i costi fissi del ristoratore, come abbiamo visto, e ha tra le mani il vero oro del business che non è com’era all’inizio - il servizio di consegna ma è la mole di dati e informazioni che riguardano le nostre abitudini alimentari, profilate al millimetro. E sono informazioni che valgono oro: provate solo a immaginare a quanto più facile sia metter su un’attività di ristorazione aggregando i dati in una zona specifica. E veniamo così all’ultimo tema legato al delivery: il dilagare delle “dark kitchen” o cucine fantasma. A Milano, a Torino, a Roma ne stanno nascendo parecchie; si parla di un +20% nel 2025. Cosa sono? Sono cucine professionali (all’inizio erano nate rilevando locali e know how professionale di chi non aveva superato la pandemia) dedicate esclusivamente alla preparazione di piatti per la consegna a domicilio. Non ci sono coperti per i clienti perché i clienti al tavolo non sono previsti, non ci sono camerieri ai tavoli e l’unico locale che serve è la cucina. Che sforna piatti che - dati aggregati alla mano - sono di tendenza, quindi l’invenduto è bassissimo. Pasti rapidi destinati a uffici, abitazioni, alberghi. Spesso, dietro il boom di queste dark kitchen, ci sono le stesse multinazionali del delivery con società spin-off. Che tra non molto tempo automatizzeranno tutto, dalla preparazione dei piatti alla consegna. Restano solo gli utili. Con buona pace di quella grande tradizione culinaria italiana che stiamo mandando a farsi benedire.




