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Silvio ancora superstar

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La piazza incorona il leader, l'unico che è tutt'uno con la sua gente. In attesa delle Regionali e del successivo rimpasto di partito

Albina Perri
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di Mario Giordano-  “Silvio bello e invicinbile”, dice un cartello. “Silvio sei meglio di Giulio Cesare”, scherza un altro. E un gruppo di sedicenni porta uno striscione che recita: “Nato con Berlusconi, cresciuto libero”. Fa un po' effeto pensare che quando ci fu la discesa in campo questi ragazzi discendevano lungo l'utero delle loro mamme. Adesso sono qui e animano i cori: «Sil-vio, Sil-vio», è un boato. Il premier comincia a parlare, ancora «Sil-vio, Sil-vio», si  deve pure interrompere. Allora i ragazzi intonano un canto da stadio: «Un presidente, c'è solo un presidente», la folla segue. Lui si ferma di nuovo. E sorride: «È quasi un boicottaggio». Nella piazza dei moderati, per quanto sia piena, c'è sempre spazio per l'ironia. L'inevitavile retorica si stempera fra i sorrisi di gente che non riesce a odiare, al massimo può sorridere. Nessun insulto, nessuna invettiva. In compenso un gruppo solleva uno striscione a caratteri cubitali: “T.A.R. Tanto Adesso Rivinciamo”. Berlusconi e la sua gente, la gente di Berlusconi. C'è un rapporto speciale, un filo diretto, un'onda corta di emozione che supera i rappresentanti di lista, i notabili di partito, persino la distanza che separa l'immenso palco dalla folla. Berlusconi e la sua gente, la gente di Berlusconi. C'è un rapporto speciale, un filo diretto, un'onda corta di emozione che supera i rappresentanti di lista, i notabili di partito, persino la distanza che separa l'immenso palco dalla folla. È la prima volta che il premier scende in mezzo alla gente dopo l'attentato di piazza Duomo. Le misure di sicurezza sono massime. Il contatto fisico viene evitato. Il Silvio rockstar di tanti comizi, quello che si butta in mezzo alla platea, quello che si fa toccare e graffiare dalle mille mani tese nell'abbraccio d'affetto non c'è, non può esserci. Silvio è costretto a stare sul palco. Ma la lontananza non lo gela, anzi. La differenza non si sente. Lui stabilisce comunque un contatto diretto con i suoi, perché è nella loro testa, nella loro pancia. Annulla ogni possibile distanza. E ogni possibile titubanza. Gli altri politici quando salgono sul palco fanno comizi. Berlusconi no. Berlusconi parla alla sua gente. Di più la avvolge, la coinvolge, a volte ci gioca, la stuzzica. La chiama a rispondere in coro alle domande («Volete voi essere governati dalla sinistra che vi tassa?». Noooo. «Volete voi essere spiati nelle vostre case?».  Noooo. «Volete voi il governo della libertà anche nella vostre regione?». Sììììì.). A un certo punto finge che la risposta non sia abbastanza forte per ottenere un coro più entusiasta. Quando Bossi si avvicina per sussurrargli all'orecchio che il candidato governatore del Veneto, Luca Zaia, non può essere sul palco, parlano per un attimo sottovoce. Poi ad alta voce scherza: «Stiamo parlando di donne…». Non c'è niente di rituale anche nel momento di massimo ritualità, non c'è niente di così formale che non possa essere vivificato da un pizzico di quotidiana umanità. La gente di Silvio si riconosce in quelle battute, in quei sorrisi, in quel modo di parlare che sembra rivoluzionario tanto è vicino a quello usato fino a un secondo prima dentro il pullman, sul treno, fra i capannelli di militanti. Silvio annulla le differenza tra leghisti, ex di Forza Italia, giovani nostalgici di  An perché traccia la linea del comun denominatore, perché attira gli sguardi a sé, oltre alle barriere degli ex partiti, oltre agli aspiranti capicorrente e capifazione. C'è tanta gente in piazza. Ma soprattutto è tutta gente che è lì per Berlusconi, che si riconosce nel leader, nel suo richiamo, nelle sue parole. Tutta gente che guarda alto verso il palco, che sente il filo diretto con il premier, e si aspetta qualcosa da lui. Mica dal sottosegretario o dal consigliere provinciale che sfila qualche metro più in là. Diciamocelo tutta: anche se riesce a portare un milione di persone in piazza, il PdL resta un partito fragile sul territorio, con strutture esigue, capacità di organizzazione modesta. Ma questa sua debolezza è anche la sua forza. Diciamocelo tutta: anche se riesce a portare un milione di persone in piazza, il PdL resta un partito fragile sul territorio, con strutture esigue, capacità di organizzazione modesta. Ma questa sua debolezza è anche la sua forza. Perché le persone che sono scese in piazza ieri non l'hanno fatto nella speranza di avere una candidatura, una poltrona nella municipalizzata, un appalto o almeno una consulenza di risulta. Dietro quella folla non c'è il sistema organizzato delle cooperative, la ferrea macchina di potere della sinistra. Dietro quella folla c'è un popolo che guarda al proprio leader, e che ha con lui un rapporto diretto, un'intesa passionale, per nulla clientelare, che supera le mediazione dei burocrati, dello stato maggiore del partito. Non ci sono colonnelli e nemmeno caporali: c'è un leader, c'è la sua gente. E c'è una piazza di moderati che stanno cambiando per sempre il modo di fare politica: fuori dalle clientele, fuori dalle partitocrazie, seppellendo per sempre i vizi della Prima Repubblica che ancora si annidano negli altri partiti. E cercando una via nuova e più moderna, magari il presidenzialismo, per governare questo Paese.  Altre volte s'era visto in piazza il popolo del centrodestra, mai come stavolta s'era visto il popolo di Silvio. “Nato con Berlusconi, cresciuto libero”, come diceva lo striscione di quei sedicenni. Un popolo libero, appunto. E per questo deciso a non fermarsi qui.

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