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E se soltanto l'agente menato decidesse di ribellarsi / Pansa

Nel 1969 a Milano gli ultrà rossi uccisero un poliziotto: ci fu rabbia, non vendetta. Ora l''Italia solidarizzi con chi ci difende

Andrea Tempestini
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Centottantotto agenti feriti. È il prezzo che le forze dell'ordine hanno pagato per impedire a tutti noi di soccombere sotto l'attacco di terroristi travestiti da oppositori della Tav. Uso la parola agenti, ma immagino che tra i 188 ci siano anche carabinieri e guardie di finanza. Sono servitori dello Stato che in val di Susa hanno difeso anche me. Mentre li guardavo alla tivù colpiti dalle pietre, dalle molotov e dalle bottiglie di ammoniaca, mi sono posto una domanda: come hanno fatto a non ribellarsi? Già, perché hanno obbedito, con intelligenza e spirito di sacrificio, agli ordini dei loro comandanti? Perché hanno conservato il sangue freddo del militare che sa di non poter varcare un certo limite? Se a vent'anni mi fossi trovato al loro posto, nei boschi attorno al cantiere della Tav, sarei stato capace di non sparare a chi mi assaliva con un disprezzo tanto feroce?  Una rivolta dei poliziotti fa tremare i polsi. Lo so dal momento che ne ho incontrata una, tanti anni fa. Era il 19 novembre 1969 e da inviato della Stampa vidi ammazzare un agente di polizia: Antonio Annarumma. Accadde a Milano, in via Larga, durante una battaglia di strada decisa da un corteo di ultrà rossi. Annarumma, figlio di un bracciante di Monteforte Irpino, provincia di Avellino, aveva 22 anni e guidava un gippone del 3° Reparto Celere. Venne trafitto da un tubo d'acciaio lanciato da un dimostrante e morì. Però questa è una storia nota che qualcuno, forse, ricorda. Meno noto è quanto accadde la stessa sera, nella caserma di piazza Sant'Ambrogio, sede del Raggruppamento “Milano”.  La prima scintilla della rivolta si vide attorno alle 21,30, al rientro dei poliziotti inviati a Bergamo, per un servizio logorante iniziato alle tre del mattino. La notizia dell'assassinio di Annarumma ebbe l'effetto di un detonatore. Gli agenti, in gran parte giovanissimi, si raccolsero eccitati nel cortile, con l'intenzione di uscire e di marciare sull'Università statale “per fare piazza pulita” e vendicare il collega ucciso. A fermarli provvide un cordone di ufficiali e di poliziotti anziani. Ma la protesta non si fermò. URLA DALLA CASERMA All'esterno si sentivano venire dalla caserma urla sempre più alte. Poi i clacson e le sirene dei gipponi. Quindi i botti dei lacrimogeni sparati in aria. Le nubi di gas arrivavano fin sulla strada. I più infuriati erano i centocinquanta uomini di un reparto giunto da Cesena. Scandivano con dolore rabbioso il nome di Annarumma. E imprecavano contro gli ufficiali che tentavano di calmarli. Arrivai in piazza Sant'Ambrogio verso la mezzanotte, dopo aver scritto il pezzo sui fatti di via Larga. Davanti alla caserma vidi un amico, Bruno Rossi, della Domenica del Corriere, e altri colleghi. Ci scambiammo le notizie su quanto stava avvenendo. Ad ascoltarci c'era un giovanotto con il soprabito blu. Lui ci spiegò che alla caserma “Adriatica” della Bicocca, quella di Annarumma, la situazione era tranquilla.   Gli chiesi: «Tu di che giornale sei?». Lui rispose: «Sono un brigadiere dei carabinieri. Il comando mi ha mandato qui in borghese per rendermi conto del caos scoppiato in questa caserma». Non era un compito difficile. Alle finestre stavano affacciati molti agenti che urlavano: «Dove sono i giornalisti? Vogliamo parlare con loro».  Ma l'ingresso ci era vietato. Fu possibile parlare soltanto con dei poliziotti, anch'essi in borghese, che sostavano sulla piazza, in libera uscita o per servizio. Uno di loro disse: «In questa caserma siamo ammassati come in un carcere. Dormiamo anche nei solai». Un ufficiale anziano, in divisa, la faccia tirata, l'elmetto sotto il braccio, cercò di zittirlo, ordinando: «Ragazzi, non parlate con i giornalisti!». Ma gli agenti in borghese lo rimbeccarono, insultandolo. Poco dopo arrivò l'auto di un generale: Giovan Battista Arista, ispettore della polizia stradale dell'Italia del nord. Il generale scese dalla vettura e si arrampicò sulla cancellata della caserma, urlando: «Sono il generale Arista, aprite!». Gli venne aperto, ma le guardie lo accolsero con bordate di fischi, urla e nuovi insulti. Lui si tolse la giubba di pelle per mostrare le medaglie. Lo sentimmo gridare: «Sono quarant'anni che faccio il mio dovere!». Ma si ricevette altri fischi e offese feroci.  Gli agenti della Sant'Ambrogio era convinti che la caserma di Annarumma, alla Bicocca, fosse in rivolta e circondata dai carabinieri. Quando gli fu spiegato che non era vero, replicarono gridando: «Vogliamo controllare con una nostra delegazione». Una volta capito che non era possibile, iniziarono a inveire contro il capo della polizia, Angelo Vicari. Scandivano: «Vicari a San Vittore!». L'OFFERTA DEI MITRA Le guardie che sostavano sulla piazza ci dissero: «È meglio andare in servizio senza i funzionari. Quella è gente che se la fa sotto. Non abbiamo dei capi veri, siamo disorganizzati, così i dimostranti ci pestano e non possiamo neppure difenderci». Un personaggio dell'estrema destra, che stava vicino ai cronisti, cominciò a gridare verso la caserma: «Coraggio, ragazzi, uscite e venite con noi. Abbiamo dei mitra!».  Attorno all'una di notte, un gruppo di poliziotti in divisa, armati di rivoltelle, ce la fece a lasciare il corpo di guardia ed entrò di corsa in piazza Sant'Ambrogio. All'interno della caserma le grida si facevano sempre più alte e minacciose. Gli agenti urlavano: «All'università, all'università». Ma la loro sortita venne bloccata in qualche modo. Ai pochi arrivati sulla piazza non rimase che parlare con noi della stampa. E si sfogarono. Sui miei appunti di allora ritrovo quel che ci dissero, fuori di sé per la rabbia: «Negli scioperi la gente ci sputa addosso, ci getta le monete, ci insulta la madre, la moglie, le sorelle. E noi niente, dobbiamo stare fermi. Tutto per 66 mila lire al mese, la nostra paga. In questa caserma ci stanno le piattole. I cessi sono uno schifo. La mensa è roba da maiali. Quando ci lasceranno attaccare prima di farci accoppare, vedrete che l'ordine pubblico andrà meglio!».  Dalle camerate seguitarono a venire altre bordate di fischi e di insulti, più i botti dei lacrimogeni. Ma la rivolta cominciò a spegnersi. E verso le tre di notte in piazza Sant'Ambrogio ritornò la calma. Quella mattina, interrogati dai giornali, i vertici della polizia, a cominciare dall'Ispettorato guardie di pubblica sicurezza, sostennero che nella caserma non era accaduto niente.  La stessa cosa dissero al ministero dell'Interno. Soltanto in seguito si venne a sapere che molti dei reparti rivoltosi erano stati sostituiti con truppe affluite da Alessandria, Bologna e Nettuno. Sino a rinnovare quasi del tutto l'organico della polizia a Milano. Nel novembre 1969 ero un giornalista di appena 34 anni, con nove di mestiere alle spalle. A quel tempo, il disordine eccitava la mia curiosità professionale. Pensavo che cortei violenti, scontri di piazza, morti, feriti e rivolte di poliziotti fossero il carburante giusto per scrivere articoli destinati a farsi leggere. Cominciai a cambiare idea quando conobbi qualcosa di più sul conto di Antonio Annarumma, il poliziotto ucciso in via Larga. Era l'unico figlio maschio di Carmine, un povero bracciante dell'Irpinia. Il maresciallo dei carabinieri di Monteforte raccontò: «Quando gli andai incontro per dargli quell'annuncio terribile, lo trovai così nero di terra nelle rughe, e così sudato per la grossa sega portata sulle spalle, che ne provai pietà». Monteforte Irpino era un paese di quattromila anime, più mille emigrati in America o in Europa. Anche due sorelle di Annarumma vivevano all'estero. A Monteforte non mancava soltanto il lavoro. Niente cinema, niente ritrovo, niente sala da ballo. Esisteva appena una piazza da passeggiare con le tasche vuote. Antonio si riteneva fortunato per essere entrato in polizia. Ma dopo un periodo di servizio a Caserta e a Foggia, l'avevano inviato a Milano. La città gli apparve subito un fronte di guerra. Troppe piazze violente, troppi nemici, troppi rischi. I poveri con la divisa indosso erano ritenuti servi dei padroni e avversari di altri poveri come loro.   POCA FORTUNA... Nel novembre 1969, poco prima di essere ucciso in via Larga, Antonio aveva scritto al padre della fidanzata: “Caro papà, voglio da voi un consiglio. Mi debbo congedare? Questa vita non me la fido di fare, è disastrosa a causa degli scioperi. Cosa possiamo davanti a tutta quella gente che ci odia e ci insulta? Ma perché ci odiano?”. Ecco una domanda che molti degli agenti feriti domenica in val di Susa si staranno di sicuro facendo. Forse è bene che l'Italia incapace di odiare faccia sentire la sua fiducia in questi difensori della nostra vita. di Giampaolo Pansa

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