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La Rai? Un eterno buco nero Vale un terzo del canone

Nel 2010 Viale Mazzini ha ricevuto dagli abbonamenti 1,66 miliardi di euro, ma il Tesore l'ha mess a bilancio per 528 mln

Giulio Bucchi
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La cifra è lì, quasi nascosta nella tabellina sulle privatizzazioni che Giulio Tremonti ha diffuso durante un seminario il 29 settembre scorso. Rai holding, partecipata al 99,5% dal ministero dell'Economia. Valore della quota: 528 milioni di euro. Quasi spiccioli. Che andranno spiegati ai veri azionisti indiretti, i telespettatori italiani che volenti o nolenti ogni anno sono obbligati a pagare un canone oggi di 110,5 euro. Perché secondo il proprietario della Rai oggi dalla vendita dell'azienda si ricaverebbe meno di un terzo del canone pagato degli italiani. La Rai ha infatti incassato secondo il bilancio 2010 ben 1,66 miliardi di euro alla voce “canoni di abbonamento” che il Tesoro le ha girato dopo che l'Agenzia delle Entrate ha incassato i bollettini di tutti gli italiani in regola. Se poi si considera che gli italiani quel canone pagano da sessanta anni, cioè da quando è nata la Radiotelevisione italiana, significa che quella tassa è stata buttata davvero dalla finestra e che l'azienda è stata amministrata con i piedi. Peraltro i 528 milioni di euro che Tremonti pensa di incassare da una vendita ipotetica dell'azienda di viale Mazzini sono nettamente inferiori perfino ai 942 milioni di euro incassati l'anno scorso con la pubblicità. La valutazione è stata fatta dal capo economista della Cassa depositi e prestiti, Edoardo Reviglio (figlio di Franco, ex ministro delle Finanze e già presidente dell'Eni), sulla base del patrimonio netto, metodo utilizzato per tutte le partecipazioni non quotate del ministero dell'Economia. Rai è stata dunque valutata secondo la quota di patrimonio netto semplice iscritto in bilancio dall'azienda e in mano all'azionista che dovrebbe venderla. La somma non è stata rettificata con il valore degli elementi immateriali (utili futuri previsti, prospettive di posizionamento sul mercato, appetibilità del trasferimento) come è avvenuto invece per altre aziende. Ma il metodo scelto non fa torto all'azienda di viale Mazzini: le prospettive di reddito sono alquanto incerte (l'anno scorso il gruppo ha perso 98,2 milioni di euro, era in rosso anche l'anno precedente e lo sarà questo anno), quelle di posizionamento sul mercato ancora di più: negli ultimi anni si sono ridotte quote di ascolto ed è aumentata la presenza di altri competitori anche rilevanti come Sky e La7. Undici anni fa secondo il presidente dell'epoca, Roberto Zaccaria, la Rai valeva circa 50 mila miliardi di vecchie lire. Tradotte in euro significa 50 volte più di oggi. La cifra era sicuramente generosa, ma all'epoca Mediaset capitalizzava sul mercato una cifra 11 volte superiore al suo fatturato e le aziende di settore in Europa valevano almeno nove volte il fatturato. Quattro anni dopo fu il direttore generale dell'azienda di viale Mazzini,  Flavio Cattaneo a chiedere una valutazione professionale del gruppo televisivo pubblico (fatto un po' meno alla carlona dell'epoca di Zaccaria). La risposta ottenuta alla vigilia di una possibile quotazione fu: vale fra 4,5 e 5,5 miliardi di euro. Dieci volte più di oggi. Si è tenuto stretto Tremonti? Mica tanto. Perché se si guarda il principale (ma più grosso e redditizio) concorrente della Rai, e cioè il gruppo Mediaset, la valutazione sembra assai simile. Oggi capitalizza in borsa 2,7 miliardi di euro, cinque volte quel che verrebbe valutata la Rai. Al 31 dicembre 2010 il patrimonio netto di gruppo ammontava a 2,6 miliardi di euro. Più o meno la capitalizzazione attuale. Quindi sembra abbastanza corretta la decisione del Tesoro di fare il prezzo della Rai basandosi sul patrimonio netto dell'azienda. Il colosso dell'informazione pubblica, l'azienda per cui impazziscono tutti i partiti politici e su cui vigilano decine di procure della Repubblica, vale proprio un tozzo di pane. Agli italiani si chiede dunque un canone per finanziare una macchina  che riesce a distruggere i soldi da sola, senza bisogno di terremoti finanziari e di turbolenze sui mercati. A questo punto non privatizzarla non sembra nemmeno un dramma. Basta lasciare erodere ancora qualche anno il patrimonio netto dell'azienda e quando non varrà più un euro basterà chiuderla e vendere ad altri impianti, palazzi e strutture: è il vero affare da realizzare. di Fosca Bincher

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