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Il Carroccio arriva a un bivio: adesso tirare fuori i Maroni

Non ci sono alternative per il futuro della Lega Nord: o il Senatùr caccia i ribelli o loro lo pensioneranno

Andrea Tempestini
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La Lega è arrivata a un punto di non ritorno. Dopo le inaudite contestazioni di Varese, la sparata con insulti di Umberto Bossi contro il sindaco di Verona Flavio Tosi, uno dei leghisti più popolari d'Italia, e la secca replica a stretto giro di posta del «fratello» varesino di Tosi, Attilio Fontana («Se buttano fuori Flavio viene giù il mondo»), tutto ciò che doveva accadere prima della battaglia definitiva è accaduto. E, emblematicamente, è successo proprio il giorno in cui la più sballata e inutile delle recenti iniziative del Carroccio, l'apertura della sede di quattro ministeri a Monza, finisce in pochade, con l'altolà del tribunale di Roma «per motivi sindacali». Guarda il videocommento di Maurizio Belpietro: "Bossi può uccidere la sua creatura" Una farsa nella farsa.  A questo punto ci sono solo due scenari possibili. Primo. Bossi (o, per essere più precisi, il famoso Cerchio Magico) va fino in fondo e dà il via alle epurazioni. Non sarebbe un inedito nella Lega, anzi. Ma stavolta non appare l'opzione più probabile: il vecchio capo non sembra averne la forza e, per paradosso, proprio la violenza della sua esternazione contro Tosi testimonia un'impotenza di fondo. Ai bei tempi avrebbe espulso il sindaco scaligero senza tante storie; adesso tuona che presto lo caccerà, e intanto si chiede se lo può fare davvero senza ritrovarsi a fare il prossimo raduno, anziché a Pontida, nel giardino di casa a Gemonio. Secondo. Quelli che per comodità vengono chiamati i maroniani - ma in effetti sono la vera classe dirigente del partito, consapevoli di rappresentare le istanze di almeno l'80 per cento della base e stufi delle manovre di palazzo dei vertici - realizzano di forza ciò che da mesi, a microfoni spenti, confidano di sperare avvenga quasi per magìa. Vale a dire: anziché aspettare che il Senatur faccia un improbabile passo indietro, ritagliandosi la figura del padre nobile, lo costringono a mettersi da parte e si prendono la Lega. Da tempo Bossi non è più il formidabile animale politico che ha creato e fatto crescere il Carroccio. Fiaccato nel corpo, ostaggio di una rete che mischia politica, interessi familiari e affetti, non ha più la lucidità per condurre il partito e neppure quella di cogliere il momento giusto per cedere il comando. Le sue intuizioni folgoranti  sono un lontano ricordo. Forse l'ultima è quando, alle sorgenti del Po, ridimensionò il ruolo del figlio Renzo da Delfino a Trota. Ma da allora di acqua sotto i ponti del fiume caro ai leghisti ne è passata parecchia e l'anziano leader si è via via lasciato sopraffare dall'amor filiale, si è lasciato convincere che davvero sia possibile una successione dinastica. Nel frattempo è però cresciuta una classe politica più “leghista” di lui, che rifiuta questa logica padronale e ha cominciato a manifestare disagio in modo sempre più evidente, fino allo scontro. È un dissenso che finora non ha trovato sbocchi, conducendo alla rissosa paralisi di cui siamo testimoni in questi giorni. Una situazione di stallo che non può durare. A questo punto, o muove Bossi, oppure muovono i «maroniani»: vanno alla sfida in campo aperto, chiedendo (e vincendo) i congressi, senza ritirare i candidati all'ultimo momento come a Varese. Certo, ci rendiamo conto di che cosa significhi Bossi per la Lega e i leghisti. E, di conseguenza, quanto sia complicato metterglisi contro. Difficile da un punto di vista affettivo. E pure da un punto di vista politico. Un Carroccio senza il Senatur alla guida è un'immagine che fa tremare le vene ai polsi dei colonnelli leghisti e dei militanti. E non senza ragioni: rappresenta un'incognita che nessuno sa quanto possa valere nelle urne elettorali. Ma la sensazione è che in questo momento varrebbe comunque di più di una Lega senza Tosi, senza Fontana, senza Dario Galli, senza Gianluca Pini, senza Giancarlo Giorgetti, senza Giacomo Stucchi, senza cioè tutti coloro che si rifanno a Roberto Maroni. Tocca al ministro, dunque. È Maroni che deve uscire dall'incertezza e lanciare il guanto. Oppure, se comprensibili vincoli di amicizia gli vietano il passo decisivo, lo dica chiaramente e dia strada a sua volta a qualcuno dei succitati compagni di viaggio: non c'è più molto tempo per salvare una delle più importanti esperienze politiche degli ultimi vent'anni.   di Massimo De' Manzoni

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