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Guido Bertolaso, l'intervista: "Vi spiego perché vanno vaccinati anche i 12enni"

Fabio Rubini
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Guido Bertolaso ci accoglie nel “suo” quartier generale nel palazzo dell’Areu, ci invita a sedere e intanto butta lì un «è arrivato il giorno, sto facendo le valige. Si torna a casa». Già, perché ieri alle 18 un treno lo ha riportato a Roma dalla famiglia. La sua missione in Lombardia per ora è finita, anche se continuerà a seguire da remoto l’andamento della campagna vaccinale. 

Sono stati mesi intensi: dall’invenzione dell’ospedale in Fiera alla campagna vaccinale. Davvero se ne va? 
Mi prendo il giusto e meritato periodo di riposo. Domani (oggi, ndr) apriremo le vaccinazioni anche alla fascia 12-29 anni. Direi che si può dire: missione compiuta». 

Prevede di tornare? 
«Sì, per organizzare la somministrazione della terza dose». 

Quindi è certo che sarà necessario farla? 
Non è ancora ufficiale, ma dobbiamo fare i conti con le varianti. Quindi i vaccini andranno aggiornati. Credo che una nuova campagna sia inevitabile». 

Sarà massiva come questa? 
«Lo dirà il Cts. Io penso che sarà più una campagna sul modello delle vaccinazioni antinfluenzali. I grandi centri di vaccinazione non ci saranno più, ma ripeto per definire le modalità bisognerà aspettare quando avremo più informazioni». 

Dottor Bertolaso, la vaccinazione si apre anche dai dodicenni in su. E già qualcuno dice: “perché vaccinare i giovanissimi che non hanno avuto contagi”? 
«E chi lo dice che non hanno avuto contagi? Chi dice che non sono portatori sani? Qualcuno nel mondo ha fatto studi sui giovani? La risposta è: no. Quindi vanno vaccinati, per evitare che una volta tornati a scuola, per esempio, poi non portino il contagio nelle famiglie. Con la vaccinazione di queste fasce mettiamo in sicurezza il futuro». 

Secondo lei perché nessuno ha studiato questo possibile scenario?
«Non lo so. Certo che se io fossi stato il ministro della sanità, invece di passare l’estate a scrivere libri avrei fatto altro...». 

Cosa esattamente? 
«Io prenderei 10mila italiani di varie fasce d’età, che hanno fatto vaccini diversi in momenti diversi e farei uno studio del tasso di immunità contro il Covid. Monitorerei i loro anticorpi per vedere chi ne ha ancora e capire così quale vaccino ti procura più anticorpi. Così potrei decidere chi vaccinare, per esempio, con la terza dose». 

L’Italia rischia di restare indietro? 
«No guardi, il problema non è l’Italia. Queste ricerche non le sta facendo nessuno. Invece dovrebbero usare il tempo a disposizione da qui ad ottobre e cercare di non farsi trovare impreparati. Anche se dubito che dopo l’estate ci sarà una nuova andata come lo scorso anno». 

Bertolaso proviamo a riavvolgere il nastro, le va? Scoppia la pandemia, lei arriva in Lombardia nel momento di massima pressione. Che ricordi ha di quei giorni? 
«La sensazione che la Lombardia fosse stata abbandonata a sé stessa dal governo di allora. Io stesso mi sono scontrato con le gestione politica della crisi. Ricordate quando mi hanno negato l’aiuto di tre miei uomini della Protezione Civile? È stata una cosa incredibile». 

Governo Conte bis bocciato? 
«Ma scusi, che ha fatto quell’esecutivo per la Lombardia? Nulla! L’unica cosa è stata quella fuga di notizie sulle chiusure che ha dato vita a quelle scene indecenti della Centrale presa d’assalto per scappare. A febbraio e marzo, quando la Lombardia era nel pieno dell’emergenza qui si sono visti medici cubani, russi, albanesi. E quelli delle altre regioni italiane meno colpite dov’erano? Chiusi in casa dal governo... Questo è il modo corretto di aiutare chi è in difficoltà? Questi sono i fatti, quelli che dicono che chi aveva il compito si aiutare una regione in crisi non ha fatto nulla». 

Poi è arrivato Draghi. Meglio?
«Certamente, anche se il vero cambio di passo c’è stato quando al posto di un commissario per le emergenze che sembrava sempre improvvisare, è arrivato il generale Figliuolo che ha gestito l’emergenza con un’organizzazione di stampo militare. L’unica in grado di funzionare. Con lui ogni giorno ci sono target precisi, sappiamo quanti vaccini arriveranno e dove. Tutta un’altra storia».

Sia per l’ospedale sia per la campagna vaccinale la sua figura è stata oggetto di numerose critiche. Dopo la sua spettacolare gestione della Protezione Civile è stato massacrato. Perdoni la franchezza, ma chi glielo ha fatto fare di rimettersi in pista? 
«Chi ha lavorato con me sa che io mi presento nei posti di lavoro con un tricolore tutto sbrindellato che risale al 1980. Era la bandiera italiana che sventolava fuori dall’ospedale che avevo costruito in Cambogia per curare i profughi che scappavano da Pol Pot. Ecco, io lo faccio per quei tre colori il verde, il bianco e il rosso che rappresentano il mio Paese». 

Ad un certo punto lei se l’è presa con i colleghi medici. Si è pentito di quelle parole? 
«No, anche perché io me la sono presa con i sindacati dei medici, quelli che mi dicevano che vaccinare era degradante. Sono inorridito, perché fare il vaccino, cioè la prevenzione di una malattia, è la parte più nobile della nostra professione. Per contro sul territorio ho trovato medici pronti a lavorare, tanto che molti centri massivi li abbiamo affidati a cooperative di medici di medicina generale».

E pure con Aria non è stato tenero...
«Su Aria che dire, io quando sono arrivato avevo chiesto loro due parametri: che si vaccinasse per ordine di età e che si mandasse la gente vicino a casa. Non ne hanno rispettata nemmeno una e mi sono arrabbiato». 

C’è stato un momento nella sua “campagna di Lombardia” nel quale ha detto “ma chi me l’ha fatto fare”? 
«Una sera verso fine febbraio, saranno state le 23, ero in videoconferenza con alcuni dirigenti della sanità e mi dicono che in un centro vaccinale il giorno dopo non si sarebbe presentato nessuno perché gli sms non erano partiti. Lì ho avuto un attimo di sconforto. Poi assieme a tanti altri mi sono attaccato al telefono per chiamare la gente e garantire almeno un minimo di vaccinazioni». 

E il momento che non dimenticherà mai? 
«Quando ho vaccinato una signora di 109 anni. Mi ha trasmesso un’emozione gigantesca. Si ricordava di Caporetto e Vittorio Veneto. Era come avere davanti un libro di storia. Pensi che ho fatto il conto, tra ultracentenari e over 80, se faccio il conto posso dire di aver vaccinato duemila anni di storia...». 

A proposito di storia, sicuro che non vuol fare il sindaco di Roma? 
«Sono agli ultimi decimetri della vita ed è giunto il momento di ridare alla mia famiglia quello che 50 anni di incarichi pubblici le ha tolto. E poi mi creda, sono davvero stanco». 

Eppure la capitale avrebbe bisogno di una bella “cura Bertolaso”. È impossibile convincerla? 
«Adoro Roma, ma c’è un tempo per tutto e il mio non è quello di fare il sindaco. L’importante però è che non lo faccia più la Raggi. mamma mia che figuraccia con la targa di Azeglio Ciampi...». 

L’hanno proposta come sindaco anche a Milano. A Napoli e Torino niente? 
«In realtà a Napoli volevano candidarmi dopo che ho risolto l’emergenza rifiuti...». 
 

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