Anita Desai è la più importante scrittrice indiana contemporanea e, a ottantasette anni, rompe un silenzio editoriale durato tredici anni con Rosarita (Einaudi, traduzione Anna Nadotti) un romanzo che è insieme rivelazione e resistenza. La scrittrice, nata a Mussoorie in India nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese, già tre volte candidata al Booker Prize, non scrive per consolare. Scrive per disarmare. E anche questa storia, apparentemente semplice, agisce in profondità, come il sale sulle ferite che si fingevano guarite. Desai scrive infatti in seconda persona – "tu" – e non è un caso. Obbliga chi legge a mettersi nei panni di Bonita, ma anche a chiedersi: “Io cosa so davvero di mia madre? E cosa mi è stato insegnato a non voler sapere?” È un dispositivo narrativo che spezza il contratto implicito tra lettrice/lettore e personaggio e costringe a stare scomodi, a leggere con addosso la responsabilità della storia personale.
Al centro del romanzo c’è Bonita, giovane donna indiana che si trova in Messico a studiare spagnolo, quando un incontro al limite del verosimile con un’anziana sconosciuta la trascina in un viaggio nella memoria. La donna – vestita in un folclore che sembra caricatura e maschera insieme – sostiene di aver conosciuto sua madre, Rosarita appunto, quando quest’ultima si trovava in Messico per studiare arte. Ma Bonita non sa nulla: nella vita di sua madre non c'erano mai stati dipinti, né viaggi, né sogni di fuga. Ricorda solo uno schizzo pallido incorniciato e appeso sul suo letto. Non sapeva che l'avesse realizzato sua madre. Raffigurava una donna e un bambino che non si guardano. E da quell’assenza di sguardi, prende corpo tutta la narrazione. Bonita cresce con una madre "inadeguata come moglie” e una nonna che ha fatto della rassegnazione una disciplina quotidiana. Ma sarà proprio attraverso la ricerca di quella madre fuggita in Messico – forse per arte, forse per sopravvivenza – che Bonita comincia a capire il valore della disobbedienza contro chi vuole le donne esclusivamente come custodi del dovere, del sacrificio, del silenzio.
Il Messico che Desai disegna è caldo, pieno di colori e ombre, ma soprattutto è il luogo simbolico della metamorfosi. Qui l’arte diventa esilio e rinascita, ma anche riscatto. In una delle pagine più potenti scritte da Desai, Bonita immagina i treni della Partizione indiana – quelli pieni di cadaveri, di sangue, di famiglie spezzate – mescolarsi a quelli della rivoluzione messicana. Rosita assiste a una conferenza, fugge dalle immagini, ma è proprio lì che inizia la sua vera fuga: verso la vita che avrebbe potuto, e che forse ha vissuto. L’arte non è decorazione, ma strumento per dare forma all’indicibile. I muralisti messicani che raccontano la violenza della Rivoluzione diventano specchio dei pittori indiani che rappresentano nelle loro opere l’orrore della Partizione. Le immagini si intrecciano. I confini non sono solo geografici, ma psichici. E Bonita è costretta a chiedersi se anche sua madre non sia stata attraversata da quelle stesse linee, da quelle stesse fratture.
E allora Rosarita diventa anche un romanzo sul potere salvifico dell’immaginazione. Bonita segue la Mistificatrice, la “Trickster”, in un pellegrinaggio sospeso tra finzione e verità. Non importa più se ciò che la donna racconta sia accaduto o no: importa che Bonita, per la prima volta, sceglie di credere. In un’altra madre. In un’altra possibilità.
Rosarita di Anita Desai (Einaudi, pp. 104, traduzione di Anna Nadotti) merita assolutamente di essere letto.