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Vittorio Feltri, un'impensabile verità: "Vi dico chi comanda davvero il mondo"

Giulio Bucchi
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Ho conosciuto l' autore, un prete, prima di leggere il libro. Sono l' uno all' altezza dell' altro: molto su. Don Giulio Dellavite con la sua "giovane matita", come scrive di se stesso, ascende sopra la coltre di nebbia in cui navighiamo tutti, e lì sta, ma senza alcuna spocchia o quella specie di sorrisetto di superiorità che caratterizza certi presunti illuminati dalla fede. Inerpicarsi lungo i pendii di queste pagine, cadendo e rialzandosi, è un' esperienza interessante. La copertina del volume ospita la parola "cieli", e riflette la ragione sociale della Ditta, ma qui non c' è proselitismo, e il riferimento alla località sopra le nubi non è un tic professionale e neppure un invito a fuggire tra gli angioletti. Si noti: la volta celeste qui appare di un colore diverso da quello consueto: ha scelto il giallo, e l' intenzione non è di confondere, bensì di chiarire subito il concetto: i veri colori delle cose e delle parole non sono quelli che appaiono alla superficie. Da qui la proposta, lanciata anche agli atei, di guardare se stessi e il mondo con intelligenza ed ironia, osservandosi da una postazione che consente di scrutare meglio il campo delle nostre battaglie quotidiane, non per sorvolarle, ma per combatterle meglio. Insomma, la posizione per vivere la vita è esserci dentro fino al midollo e insieme sopra, fino a sorriderne. Un po' come, se ho capito giusto, farebbe Dio (se ci fosse, aggiungo io). Il volume si intitola Se ne ride chi abita i cieli (L' abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero), Mondadori, pagine 220, 18,00. L' ha scritto Giulio Dellavite, un sacerdote con cui vale la pena dialogare. Me n' ero accorto a tavola, dove mangio pochissimo, tuttavia mi sono nutrito a cucchiaiate e con gusto dei giudizi da libero pensatore cattolico di un sacerdote colto, carismatico e insieme pratico. Il suo curriculum narra di studi in varie università pontificie, del servizio in Vaticano, avendo per maestro il cardinale bresciano Giovanni Battista Re (un prelato che avrei visto bene, a suo tempo, Papa, ma Papa-Re sarebbe stato un po' troppo), quindi il ritorno a Bergamo dove chi sa le cose dice sia l' amato braccio destro del vescovo. Riferisco. E rifletto su come la Chiesa, almeno quella in cui mi sono imbattuto io sin dalla mia più tenera età, sappia selezionare i suoi dirigenti con criteri di meritocrazia, princìpi traditi dalla élite politica e universitaria italiana. Il fatto certo è che la forza intellettuale, l' apertura mentale e lo humour che mi colpirono impugnando il cucchiaio, don Giulio li ha travasati in questo libro, con una raffinatezza e una cognizione della filologia e del Medioevo che farebbero invidia all' Umberto Eco de Il nome della rosa. La morale della storia - Dellavite non ambienta la vicenda, a differenza dell' intellettuale alessandrino, in secoli lontani, racconta l' incontro contemporaneo tra un manager ai vertici di una multinazionale e un abate benedettino, contornato dai suoi monaci in un monastero della Bassa lombarda tra Bergamo e Milano. Annuncio subito la morale della storia. Del resto don Giulio la rivela nella premessa: «Ciascuno nel proprio mondo» ha il compito inevitabile, se è un uomo e non un caporale, di cercare se stesso. Non si tratta di autodefinirci con una formula e una serie di regolette, bensì di metterci nella posizione giusta per intuire «chi poter essere», e diventare così un leader. Le azioni - Il potere, dice l' autore, non è da intendersi come sostantivo, "il" potere, ma come verbo, "poter fare", anzi, innanzitutto, "poter essere". Da cui azioni conseguenti da scegliere di volta in volta guardando la realtà e gli altri con occhi carichi di benevolenza. Un po' come Gesù. Leader non è - se ho capito giusto - tenere il timone del comando, ma è chi, qualsiasi sia la sua collocazione gerarchica nel mondo, guida se stesso e gli altri all' essenza delle cose, crea unità e sintesi. E come si fa? Dellavite indica come pietra angolare di questa ricerca la frase già citata, tratta dal Salmo 2: «Se ne ride chi abita nei cieli». È l' apriti sesamo della leadership, e non va sezionata come farebbe un chirurgo, ma è da percepire come il lieve fragore di sottofondo di un ruscello tra le righe, la pacifica e inquieta colonna sonora del romanzo-saggio. Il prete, che mi rifiuto di definire teologo, per non offenderlo, sostiene che questo sia il metodo di papa Francesco, anzi il Pope Francis' Style. La trama? Il dottor Giorgio, bocconiano con master americani, carriera folgorante, sta correndo a Milano sulla sua meravigliosa coupé. È venerdì sera, per evitare le code, si fa portare dal navigatore in stradine di campagna, se ne frega della nebbia, la fuoriserie ci vede da sola. Ed ecco: la centralina progettata dalla Nasa per Marte salta, lo smartphone è inutile, non c' è campo. Si aggira come un fantasma. Ecco un portone e la scritta: "Abbazia". Bussa. Incontra lì il suo alter ego in tonaca nera: dom Ettore (con la emme, i benedettini hanno questo titolo). Il resto è un' avventura dove ciascuno dei due impara dall' altro. Ne esce una definizione strana e profonda: «Credo che la soluzione non stia né nell' essere manager né nell' essere monaco, ma nell' essere leader, che in fondo significa essere monaci dentro e manager fuori». Che tradotta in italiano suona così: «Se ne ride chi abita nei cieli». di Vittorio Feltri

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