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Staiti di Cuddia: "Ero il barone nero della politica. Ora voto Grillo e temo i nuovi fascisti"

Nicoletta Orlandi Posti
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Il rendez vous con Tomaso Staiti di Cuddia è nei pressi di San Babila, la zona più nera di Milano. La scelta l'ha fatta lui che è il vivente più di spicco del vecchio Msi meneghino. Anche se oggi abita sul Lago Maggiore, se scende in città va al Caffè Sant'Ambroeus, il suo preferito ai tempi della gioventù turbinosa. È in questo locale per notabili che ci vediamo. Quando arrivo, Staiti è già seduto e sgranocchia olive. A dicembre fa 82 anni ma non gliene dai settanta. Quando si alza, svetta come un fuso e mi ha ricordato lo Staiti di trent'anni fa, quando sbucò nel Transatlantico di Montecitorio dritto come adesso ma con la gamba ingessata. Se l'era rotta lanciandosi col paracadute. «Ha finito con quella mania?», chiedo. «L'ultimo lancio l'ho fatto a 72 anni. Poi ho smesso per non diventare un fenomeno da baraccone», ironizza. «Ha nostalgia dei suoi quindici anni in Parlamento come deputato del Msi prima che diventasse An?», domando. «Lasciai Montecitorio nel '92 e per qualche anno ho avuto rimpianti. Pensavo di potere fare ancora politica fuori dalle Camere, ma poi ho perso l'illusione». Me lo rivedo a quei tempi, lo Staiti missino. Era l'incarnazione del guascone. Un piantagrane monumentale in un partito monolitico dominato da Giorgio Almirante. Una volta gli si oppose, candidandosi - senza nessuna speranza - alla segreteria. Perse e divenne l'eroe dei missini malpancisti e mugugnosi. Poi, morto Almirante, se la prese con Gianfranco Fini, il delfino. Appoggiò Pino Rauti e quando Fini lo sconfisse, Staiti lasciò il gruppo e di lì a poco il Parlamento. Così: tanto per mantenere il punto. Staiti è un barone di stirpe siciliana con cognome lungo come la via crucis, Staiti di Cuddia delle Chiuse. Di nome fa Tomaso, con una emme, perché due è plebeo. Una volta, sempre alla Camera, un deputato del Psdi cazzottò un collega di partito che lo aveva offeso. Tomaso alzò il sopracciglio - uno terra terra avrebbe storto il naso - e scandì: «Mai mi abbasserei a colpire. Avrei mandato i lacchè a bastonarlo». C'è tutto il nobiluomo anche nello Staiti che mi sta di fronte e che, liquidate le olive e pure i salatini, si è fatto portare un toast. Capelli di destra, corti con scriminatura, ed eleganza da caminetto, con golf beige e sciarpa in tinta. «Però ha riprovato a rientrare in politica. Nel 2008 si è avvicinato alla Destra di Francesco Storace di cui era magna pars Daniela Santanché», gli ricordo. «Me ne disgustai presto - replica - perché Santanchèque (la chiama così per sottolineare l'abilità negli affari dell'attuale deputata Fi) mancò di parola. Giunto al partito, mi parlò malissimo di Berlusconi “bugiardo matricolato”. La cosa mi tranquillizzò, essendo un convinto antiberlusconiano di destra, e le dissi: “Puoi promettermi che mai la Destra si alleerà con il Cav?”. “Parola d'onore”, mi rispose. Qualche mese dopo, per interessi suoi, era già sulla strada di Arcore. Così, me ne andai». «L'anno dopo c'è ricascato con Fini, già suo nemico», insisto. «Assistetti in diretta su Sky al famoso: “Che fai, mi cacci?”. Ebbi simpatia per Fini e ci siamo rivisti. Gli chiesi: “Come hai potuto stare anni col Cav?”. Rispose: “Posti e potere”. Non mi piacque. Gli chiesi: “Perché vuoi metterti con Casini?”. Rispose: “È come l'ombrello: quando piove serve”. Mi spiacque anche questo. Gli dissi: “Dovresti lasciare la presidenza della Camera per avere le mani libere”. Replicò: “Eh... ma... È un posto sicuro... dà prestigio... Come faccio?”. Era il solito Fini. Un debole e senza coraggio che mai avrebbe giocato in grande. Gli girai le spalle». «E ora chi vota?», chiedo. «Nelle ultime quattro elezioni Beppe Grillo», risponde. «Oh, bella e perché?». «Grillo è l'unico che parli di un recupero del senso di comunità nazionale». «Un valore di destra», faccio io. «Sì, ma senza l'etichetta di destra ormai indigeribile. Non credo più nella destra. Deve cambiare veste e avere, per esempio, la faccia di Grillo», dice e, avvicinando la testa come per confidare un segreto, sussurra: «Alcuni anni fa, a un'elezione regionale, ho votato Rifondazione comunista». «Mattacchione», esclamo e brindiamo con gli aperitivi. Ha scritto un paio di libri prendendo a scarpate gli ex camerati. Maurizio Gasparri uno “spione viscido”. «Ha il dna di un informatore dei carabinieri». Giorgia Meloni “modesta modista della Garbatella”. Non è una speranza? «Soprattutto per la sua famiglia. Certe resurrezioni partitiche servono a dare poltrone a quattro gatti. Non è un disegno politico ma di sopravvivenza personale e famiglie connesse». Alessandra Mussolini “una vajassa che non sente il peso del cognome che porta”. «Nel nome di Mussolini, milioni si sono scontrati pro o contro. Chi lo porta deve perciò sentirne il carico e non usarlo come uno spot per risolvere personali problemi di vita». Di Berlusconi ha scritto: “Personaggio orrendo che si è impadronito della politica italiana”. «Si è sentito al di sopra di ogni legge. Pensava di potere comprare tutto: politica, Guardia di Finanza, ecc. Ma l'imperdonabile è l'assoluta mancanza di classe, dai vestiti alle donne. Anche Agnelli era un malandrino, ma con stile». Tra l'Italia dei suoi anni parlamentari e quella di oggi in quale si riconosce di più? «La passata. Tra mille storture, si confrontavano visioni del mondo per le quali la gente era pronta a immolarsi. C'era passione. Oggi, il nulla». Di chi è la colpa dell'attuale declino italiano? «Della globalizzazione. Premetto che sono antimodernista ma come negare che oggi è tutto apparenza: il made in Italy è un'etichetta ma la proprietà è estera». Come si torna alla realtà? «Con l'autarchia». Tutto è peggiorato dai tempi del Cav: Pil, debito, tasse, occupazione. «L'ingiustizia sociale produce comunismo, il comunismo produce fascismo». Vede questo in futuro? «Temo di sì. Non so che forma avrà questo nuovo fascismo e ne diffido». Monti e Letta? «Monti è la solita delusione del tecnico messo a risolvere problemi della politica. Letta, meschino, pugnalato alle spalle in classico stile dc. Il tutto propiziato da Napolitano, l'uomo passato dal Patto di Varsavia alla Nato». Renzi? «Un illusionista. Il renzismo è la prosecuzione del berlusconismo sotto altre spoglie. Matteo sta amabilmente pattinando nella nostra patinoire domestica ma, prima o poi, prenderà una facciata». Piegarci alla recessione Ue o uscire dall'euro? «Uscire dall'euro. L'inflazione la controlli. La recessione è un pantano. C'è una terza via. Diciamo all'Ue: dateci i soldi per risistemare territorio e musei e venite da noi a passare le vacanze. Saremo il vostro parco giochi. Torneremo a essere il Paese dei mandolinisti». Dopo Renzi c'è alternativa? «Si dice che la politica ne ha sempre. Prevedo invece una grande agitazione. Essendo contro il sistema, a me sta benissimo che succeda qualcosa sulle cui rovine si possa ricostruire una coscienza nazionale». Matteo Salvini: astro nascente del centrodestra? «Bravo e coraggioso. Ha il problema di tenere insieme unità nazionale e pulsioni egoistiche. È meglio di Flavio Tosi uomo del sistema. Con Le Pen non durerà. Troppo diversi. Ma Salvini non mi interessa perché non spero in cose di destra». Chi ci vorrebbe per farci risalire la china? «Un Bettino Craxi di trent'anni, onesto». Quale politico l'ha più colpita? «Il comunista Giancarlo Pajetta. Come il nostro Pino Romualdi aveva attraversato un periodo tragico della storia. La militanza non consisteva nel distribuire volantini ma nello spararsi addosso. Morto Romualdi, Pajetta venne nella camera ardente e disse: “Eravamo nemici ma ora non conta”. Ah, i bei comunisti di una volta...». Teme l'islamismo montante? «No. È un modo di opporsi al modernismo». Putin o Obama. Russia o America? «La Russia, che è Europa. Mi illumino quando vedo le sfilate con le bandiere della Federazione, dell'Urss e dello Zar. Un Paese che ha un senso corale della storia». Lei, barone di lignaggio e chevalière al mignolo, ha una visione aristocratica della vita? «Ho tentato di averla e dimostrarla con l'esempio: essere in prima fila a fare una cosa che dico agli altri di fare». di Giancarlo Perna

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