Il banchiere Divo Gronchi a Pietro Senaldi: "Vi dico io chi c'è dietro la truffa ai risparmiatori. E l'Italia rischia"
Divo Gronchi è stato a Siena, Lodi, Vicenza, ovunque le banche avevano preso fuoco. Banchiere preferito di Zonin, successore di Fiorani, in Mps finché la banca non è diventata dalemiana. Oggi sta alla Cassa di Risparmio di San Miniato, che lui ha appena venduto a Crédit Agricole. Vecchia scuola del credito, nella sua vita è sempre stato parco di interviste. L' ultima la diede più di tre anni fa. Come mai ha deciso di concedersi a Libero? «Curiosità. Volevo guardare in faccia la stampa non convenzionale». Sono curioso anch'io: il Gronchi rosa ce l'ha? «Potrei non averlo? Agli inizi della mia professione, ai tempi dell'alluvione di Firenze, uno dei miei compiti era tranquillizzare i clienti collezionisti che speravano che i loro Gronchi rosa in cassetta di sicurezza non avessero subito danni». Il francobollo l'ha ereditato? «No, no, l'ho comprato. Io non sono parente dell'ex presidente della Repubblica; a Le Capanne, piccola frazione nel Comune di Montopoli, un terzo dei residenti si chiama Gronchi. Mio nonno nel Dopoguerra ebbe modo di fare un comizio con Giovanni, ma dall'altra parte della piazza. Lui era un comunista». Chissà perché tutti i banchieri sono comunisti. «Ma non sono comunista. E anche al Monte dei Paschi, non creda ce ne fossero molti. Il Pci ed il Psi controllavano la Fondazione, che esprimeva in parte il cda della Banca. Dentro di essa tanti dirigenti erano ex democristiani. È un istituto che ha avuto tante contaminazioni». Anche massoniche? «Quella è la storia della Toscana. Io però smentisco le voci che mi vogliono con il grembiulino, per quegli ambienti non ho mai provato curiosità. Anzi, mi stupisce molto che Fabio Innocenzi nel suo libro mi citi accostandomi alla "fede massonica" senza neppure avere avuto un riscontro oggettivo...». Colpa della massoneria o della politica se Mps è finito gambe all'aria? «La massoneria, per quanto apprendo dai giornali, c'entra più con il crac di Banca Etruria. Il Monte l'ha distrutto l'acquisto di Antonveneta. E i Tremonti bond non l'hanno poi aiutato come si auspicava». Iniziamo dal fondo. «Ho una tesi provocatoria. Qualcuno al governo, per non rischiare l'accusa impopolare di aver aiutato le banche, ha imposto a tutti gli istituti necessitanti di rafforzamento patrimoniale condizioni capestro per il rimborso; nel caso del Monte erano tre miliardi. Non sono stati dati al malato il tempo e le forze per rigenerarsi». Era così necessario comprare Antonveneta? «Non era necessario, ma il gruppo dirigente senese ha sempre avuto ambizioni di crescita, puntava a raggiungere dimensioni tali da rendere la banca autonoma da ogni avances della concorrenza. Il perimetro geografico di allora gli stava stretto; Antonveneta rappresentava il Nord, e nel mondo del credito pesare al Nord è vitale. La politica poi, che si è sempre mossa in ambito finanziario con modalità più o meno esplicite, spingeva molto per l'ampliamento. L'errore fu acquistare da Santander senza andare a vedere i conti, così Mps si è trovato con un buco inaspettato di sette miliardi». Non mi sembra una dimenticanza da poco. «Mps sbagliò a non fare i controlli e Santander fu abile a far vedere solo il buono dell'operazione e soprattutto a far percepire l'urgenza di chiudere l'operazione. A quel punto poi Mps, che aveva inglobato nel suo sforzo di gigantismo tutti i suoi istituti satelliti, non aveva più neppure qualche gioiello da vendere per fare cassa e superare le difficoltà. Si è cercato di vendere sportelli, ma non è facile come vendere una controllata». Ci furono pressioni politiche? «La politica si fa sentire molto non tanto al momento delle strategie quanto al momento di stringere i tempi e concludere, anche a qualsiasi prezzo». Tra Mps e banche Venete quale modello reputa più convincente? «Per quanto riguarda Mps il titolo ha bruciato miliardi perché le operazioni di salvataggio non sono mai state incisive. Attualmente però vedo meglio le venete di Mps». E come mai? «Perché il Veneto ha un'economia più forte e una struttura sociale più vitale della Toscana. E poi le venete sono state comprate da Intesa, che è una garanzia per i clienti. Una banca crolla quando manca la fiducia e i soldi se ne vanno, nelle venete stanno rientrando tutti rapidamente. Il Monte invece è troppo grande per essere salvato da terzi, deve farlo da solo; e io penso che l'attuale capitano, Morelli, abbia le capacità per condurre in porto la nave». Lei è stato il banchiere di fiducia di Zonin: si aspettava una fine così? «Lo conosco bene, non credo che ci sia lui dietro le decisioni che hanno determinato il fallimento. Non dimentichiamo che Zonin ha creato la Popolare di Vicenza, un successo figlio solo della sua determinazione». L'ha anche distrutta. Brava persona quindi? «Non ho detto questo. È un imprenditore, e come tale sensibile soprattutto alle dimensioni dell'azienda, ma non è un banchiere. Ha avuto voglia di crescere ma per farlo servivano capitali che la banca non aveva. Ecco, Zonin non ha vigliato, non è stato attento a come questo capitale veniva generato. Gli interessava solo il risultato e ha lasciato, questo sì, eccessivo spazio al direttore generale, che ha messo in pratica scorciatoie improprie e spesso illegali per la raccolta di capitale; nessuno in consiglio verificava le cifre e gli andava contro. Da parte di Zonin ci sono stati comportamenti maldestri e inappropriati, però il presidente non aveva deleghe». Neppure Berlusconi, ma è stato condannato lo stesso. Lo scenario che mi ha descritto è illegale. «E chi ha parlato di legalità? Infatti ci sono dei processi in corso. Mi lasci dire però tra le ragioni principali del dissesto c' è la mancata quotazione delle due banche». A cosa approderà la Commissione parlamentare d' inchiesta sulle banche? «A livello investigativo non credo approderà a molto. Però è un organo politico e può spingere il Parlamento a fare leggi che rafforzino gli effettivi poteri di vigilanza di Bankitalia». Che colpe ha Bankitalia? «Viene accusata di non aver vigilato, ma il governatore Visco ha più volte dichiarato di non avere strumenti sufficienti per un'azione di controllo veramente incisiva». Se non ha poteri di controllo, cosa ce la teniamo a fare Bankitalia, non stampa neanche più moneta? «Nel mondo del credito i Paesi mediterranei sono schiacciati dal sovrastante potere anglosassone e tedesco. Senza Bankitalia ci mancherebbe anche l'ultimo scudo». Quindi c'è uno scontro Nord-Sud in Europa nel mondo delle banche? «Non parlerei di scontro. Gli anglosassoni e i tedeschi vedono il mondo con i loro occhi e fanno i loro interessi. Noi non riusciamo a far sentire abbastanza la nostra voce. Se l'economia italiana fatica a riprendersi dalla crisi è anche perché le regole del credito ci svantaggiano. I trattati di Basilea sono pensati per mondi imprenditoriali in cui comandano le banche d'affari e si investono centinaia di milioni. Il nostro tessuto imprenditoriale è medio-piccolo e le sue esigenze non sono prese in considerazione». Allora è vero che l'Ue per noi è una maledizione? «Sta parlando con un europeista convinto, però ognuno ha le sue esigenze. Per esempio, l'euro ha difeso il potere d'acquisto del risparmiatore ma non ha sempre aiutato le imprese, che talvolta in passato hanno potuto beneficiare della svalutazione per ripartire. E anche sul fronte del credito i nostri imprenditori sono stati spesso svantaggiati: l'Europa impone parametri rigidi e alte capitalizzazioni per concedere un prestito, ha introdotto una regolamentazione esasperata mentre noi eravamo abituati a ragionare in base alla conoscenza dell'imprenditore, delle sue competenze e dei suoi prodotti anche se talvolta non era in linea coi parametri richiesti». Cos'è cambiato oggi? «È cambiato tutto, un tempo le banche che concedevano dilazioni erano considerate meritorie, perché salvavano posti di lavoro e aziende, oggi il direttore troppo permissivo rischia il posto e pure il processo. Ci si concentra in modo sproporzionato sul credito e non si vigila su mali ben più devastanti, come i derivati, nell'illusione che i buchi che essi creano vengano poi riassorbiti dal mercato, ma non è così». A volte però qualche direttore il processo lo meriterebbe: cosa pensa di tutti i truffati da Etruria? «Posso parlare per sommi capi, perché non conosco nel merito le carte di quella banca. Innanzitutto, non bisogna credere che perché un signore ha un tavolo e un computer in una saletta di una banca sia un esperto di finanza o conosca tutte le leggi. I bancari, come tutti gli esseri umani, hanno i loro limiti». E il povero risparmiatore come se la cava? «Innanzitutto bisognerebbe impedirgli di acquistare derivati, se non esclusivamente quello legato al mutuo che sottoscrive, per tutelarsi in caso di grandi oscillazioni dei tassi. Basta poi con i premi ai bancari legati alle campagne prodotto. Ma anche al risparmiatore vorrei dare un consiglio: non sia avido, con questi tassi, il 2% annuo di guadagno è già un ottimo affare». Perché le banche oggi sono così impopolari? «È saltata la fiducia, manca la trasparenza, i risparmiatori non si fidano più degli istituti e questi non si fidano più degli imprenditori». Per me sono impopolari perché si ha la sensazione che i banchieri non paghi mai per le loro colpe. «Invece pagano. Io fui condannato in primo grado, e ho ridotto le pubbliche relazioni fino all'assoluzione in appello. Non avrei tollerato l'umiliazione che qualcuno non mi salutasse o ritirasse la mano. Altri che hanno sbagliato non lavorano più, non possono quasi uscire di casa, sono sotto processo o sono stati condannati a multe pesanti». Come stanno le banche italiane oggi? «Il sistema è stato stroncato dalla lunghezza straordinaria della crisi. Oggi le banche devono migliorare la loro redditività, e segnali si intravedono. Ma il grande buco è quello dei crediti non esigibili, che immobilizzano il 20% del capitale, anche per colpa della nostra giustizia, troppo lenta e indulgente con chi non paga. Oggi ci vogliono otto anni per incassare un credito per via giudiziaria, è un tempo insostenibile: se il governo fa leggi che consentono alle banche di incassare i suoi soldi rapidamente fa un favore all'economia, non agli istituti di credito come dicono certi politici». Quanto denaro è stato prestato a clienti politici o amici che si sapeva non avrebbero pagato? «Ogni banca ha la sua storia in questo, non si può dire. Certo, qualche caso può essere capitato ma per lo più i crediti inesigibili sono figli della paralisi dell'edilizia». Ha appena venduto San Miniato a Crédit Agicole: le banche grandi uccideranno le piccole? «È quello che temo, e sarebbe la fine per il tessuto produttivo italiano. Le piccole banche dovrebbero consorziarsi e provare a resistere». Ha concesso l'intervista per rilanciarsi dopo la vendita? «Grazie per la domanda. Mi permetta di ufficializzare che il 31 dicembre attacco gli scarpini al chiodo». di Pietro Senaldi