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Vittorio Feltri e Toni Iwobi, il "negro bergamasco" della Lega: "Cari bugiardi buonisti, vi svelo chi è davvero"

Giulio Bucchi
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Toni Iwobi è l'unico immigrato che mi mette di buon umore, mi tira su il morale. Dice di sé di essere un italo-nigeriano, ed è senz'altro abbastanza «fattuale», mi farebbe dire Crozza, poiché risulta dalla carta d'identità. Ma in questa formula, burocraticamente corretta, sento l'odore degli uffici dell'anagrafe, un brodo insipido, non dice la verità esistenziale di questa vicenda che incontriamo nel libro. Più fattualmente, alla faccia dell'Ordine dei giornalisti, constato nel ragionier Toni, dirigente della Lega, un caso favoloso di negro bergamasco. La definizione sarà rustica, però è veritiera. Come definire diversamente un africano orgoglioso di esserlo, amante della sua patria antica, ma innamorato di quella dove ha trasferito le proprie radici? Uno che quando racconta di se stesso e delle sue preferenze spande intorno i profumi domestici della «polenta e coniglio», il suo piatto che più padano non si può, simbolico dello sposalizio tra il grande fiume Niger e i nostri più modesti e selvatici Serio e Brembo. Leggi anche: "Il primo senatore negro della storia e...", un Feltri scorrettissimo Le pagine che seguono sono espressione dell'intreccio riuscito, e offrono una mescolanza di biografia e di buon senso, facendomi orgoglioso delle mie origini orobiche. Qui c'è la prova provata che l'attaccamento alla nostra terra e alle sue tradizioni, tipiche dei nostri paesi e delle nostre valli alpine e prealpine oltre che della «fertile pianura della bassa», come scrive felicemente Toni, non hanno niente a che vedere con il gretto egoismo, ma hanno per caratteristica la difesa tenace di due o tre cose sacre, non di più, neppure di meno. Chi non le rispetta, è fuori. Non è razzismo, ma necessità di sopravvivenza. Chi le rispetta - sempre che ci sia posto - ha quel che si merita, si inserisce senza pregiudizio. L'unico esame del sangue richiesto a chi arriva chiedendo permesso, è la presenza nel plasma di un enzima, gene, bacillo, non so bene scientificamente quale nome abbia, che si chiama «lavorina». Qua - a parte il gozzo - è il nostro timbro intimo. Lavoro sì, ma fatto bene. Lavoro sì, e per uno scopo: la famiglia, farla star bene, e che tutta la comunità stia così in pace. Ecco la storia di Toni Iwobi nella Bergamasca. Nella legalità - L'avventura umana del presente signore è esattamente così: umana. Padre e madre sono di ceto medio, vestono come i classici abitanti delle colonie inglesi, con decoro, sono cattolici. Così da Gusau, una città del Nord-Ovest della Nigeria, dov'era nato nel 1955, si trasferisce in una bella scuola dedicata alla Madonna di Fatima. Va bene negli studi, diventa ragioniere. Lavora. Sono 11 fratelli. Decide di chiedere l'ammissione all'università dell'Arkansas, Usa. Passa l'esame con successo, ottiene il permesso. Mai clandestino, sempre nella legalità. Questo è il suo motto. Da lì, invece di tornare al Paese, fa domanda di migrare in Italia. Ce la fa. Si mantiene sgobbando come stalliere, in una famiglia dov'è stimato perché si fa i calli e sa trattare coi cavalli (buon segno!). Non ha soldi per iscriversi in Università cattolica, ma si ingegna a perfezionare italiano e conoscenza informatica. Un ragioniere attrezzato per le cose nuove della tecnologia: ha successo. Si sposa con una bella signorina, ne ha figli. Diventa il negro bergamasco che trova il suo luogo naturale nella Lega. Non mi dilungo sulla sua carriera del Carroccio. Non è uno che ci sale su: aiuta a tirarlo. "Non venite" - Il suo motto è «REALISMO, NON RAZZISMO». Per questo egli dice: migrazione solo se c'è lavoro, e siccome oggi c'è «soprassaturazione dell'occupazione» (usa questa parola accademica, ma va bene lo stesso), vanno bloccati i flussi. Come? Svelando l'inganno a quelli che sono invogliati a partire dai buonisti bugiardi. Un nigeriano che emigra lo fa per ragioni economiche (la Nigeria è una federazione, fatta di 39 stati, di cui solo tre registrano episodi di guerra), e per intraprendere il viaggio mette nelle mani dei mercanti di schiavi se stesso e seimila dollari, che coincidono con i risparmi della famiglia. Vanno «aiutati a casa loro», con investimenti governati da aziende nostre, che possano prosperare loro e far prosperare i locali. Fornisce qui altre ricette, a cui mi inchino, e che so costituiscono il programma di Matteo Salvini su questo tema che non è un' emergenza ma ci assedierà per decenni (se riusciremo a sopravvivere). Toni sostiene che prima ancora che illegale è immorale e segno di disprezzo verso gli altri popoli, migrare fingendosi profughi e farsi mantenere. Preparano l'inferno per sé e per gli altri. Non ce l'ha con i suoi fratelli nigeriani, ma con chi in Italia li inganna illudendoli che da noi ci sia l'El Dorado, allo scopo di distruggere le sacche di resistenza popolare (chiamata sprezzantemente populista) alla colonizzazione dei poteri internazionali senza volto, che hanno bisogno per questo di devastare il senso d'identità della nostra gente, colpendo la libertà di essere se stessi e minandone la sicurezza economica e fisica. Vero lombardo - Tiro la morale di questo libro, scritto benissimo, come non sanno fare la maggior parte dei laureati italiani. Il pregio maggiore è che, a cucchiaiate generose, offre, a chi se n'è dimenticato e a chi la ignora, la cultura del lavoro e della famiglia che dà senso alla vita della gente lombarda. Essa oggi resiste con fatica, rischia ogni giorno di più di sciogliersi nella cosiddetta società liquida (più che altro è un liquame). L'invasione di migranti senza arte né parte, insediati in alberghi e mantenuti dalle tasse di chi fa fatica, funziona come acido disgregatore. È paradossale, ma non tanto, che per difenderci da questa ondata di clandestini, che sono migranti economici, niente affatto profughi se non in misura ridicola (uno su venti), il cavaliere senza macchia e senza paura, sia lui, un meraviglioso negro bergamasco, Toni Iwobi, che ci aiuta a casa nostra. di Vittorio Feltri

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