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Vittorio Feltri sul libro di Paolo De Debbio: "La mano del demonio, ecco cosa rischiano i nostri figli"

Marco Rossi
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Si parla di Internet, di Rete, di social. E di ragazzi. Sono almeno trecentomila gli adolescenti che vivono una dipendenza da questi strumenti, al punto che essi non sono strade, bensì luoghi totalitari, da cui è impossibile uscire. E se ne sei costretto, soffochi, vai in astinenza, e capita di uccidersi. Ci sono rimedi a questa galera elettronica, che succhia umanità e soprattutto brucia giovinezze? Paolo Del Debbio con il suo profondo e avvincente Cosa rischiano i nostri figli (Piemme, pagine 175, 17,50) non ha la formula magica. Chiama «malattia» una sorta di sindrome, non la minimizza, non si risolve il problema con le prediche, ma con la cura, con gli specialisti. La solitudine non è assoluta. Del Debbio ci insegna a percepire, da dietro le alti pareti della droga-social, le grida disperate di tanti ragazzi. Non basta l'affetto per curarli. Occorre trattare tale stato di prostrazione per ciò che è: una patologia. L'amore dei genitori e degli educatori è la spinta che induce ad osservare e a capire che cosa sta accadendo. La passione vera, la disponibilità a versare se stessi per quell'adolescente sarà un fattore decisivo per convincerlo ad accettare di voler guarire. Ci sono centri idonei. E mi fa piacere veder citato il grande medico e collaboratore di Libero Luca Bernardo tra coloro che sono attivi in questi progetti. Sono almeno trecentomila i giovani prigionieri del virus per cui credi di esistere se sei virale. La forza del volume è di saper turbare. Mi ha fatto commuovere. Ti trascina a condividere il dramma di una generazione di «nativi digitali», nati cioè in questa giungla, e come sia stato possibile siano precipitati nelle fauci di Internet-il-Cannibale. La causa. Risale anche alla generazione pre-elettronica. Abbiamo perso la «scheggia» racconta Del Debbio e non l'abbiamo perciò consegnata ai figli. L'autore ci porta nella valle toscana da cui proviene. Tanti da lì partirono per l'America, vivendo l'emigrazione come un esilio. Eppure queste persone, semi-analfabete, erano profondamente colte. Avevano un perno affettivo, un grumo di memoria vivace. Ermanno (figura simbolo) quanto i suoi compaesani prima del viaggio staccava una piccola scheggia di legno dalla statua di San Paolo, la faceva benedire dal prete, e la cuciva in una tasca. Era un fatto pagano? Non lo so. È un po' come il rosario impugnato da Salvini: indica un legame con qualcosa che nessuna multinazionale o nessuna potenza ideologica potrà portar via. Si tratta di ritrovare questa «scheggia». Internet accade tutta e solo nell' immediato. Taglia fuori dalla vita facendo credere che consista nella sua navigazione. I motori di ricerca sono bibliotecari ubriachi. Chiedi a Google un'immagine di Napoleone e ti viene fuori la scatoletta di sardine «Napoleon». Occorre una base su cui poggiare, «un filtro», alcunché di solido per affrontare il mare infinito e ingannevole di Internet. Anzi due filtri. Uno fatto di concetti, nozioni, chiarezza di punti di vista sulla storia per capire e selezionare. Il secondo è il lavoro più importante: quello di togliere le incrostazioni che impediscono di comunicare la strana impalpabile cosa che si chiama «l' umano in noi», dice Del Debbio, che non sappiamo bene in che modo definire ma si rivela nel momento in cui, davanti a certi racconti e immagini, ci viene «la pelle d'oca». Ripartire da lì. Un libro magnifico. Da leggere nelle scuole. Da meditare in famiglia. Con consigli pratici. Ne indico tre fra i molti. 1) Genitori controllate lo smartphone dei ragazzini. Oggi soltanto il 10 per cento lo fa. Stabilire che cosa e chi frequentano è importante. 2) Stabilire delle regole per la connessione. Tempi di silenzio, in cui tenersi staccati dalla Rete. 3) L'esempio degli adulti. Se in famiglia si privilegia il tweet col mondo esterno a un «come stai?» vero e serio, altro che «scheggia» nel senso di Ermanno, cioè come legame alla vita reale: si diventa schegge impazzite. Leggere il libro mi ha riportato alla mente un antico colloquio di cui riferirò tra poco con la dovuta riverenza. Erano gli anni '90, Del Debbio non era il conduttore televisivo con sangue freddo e riflessi caldi che conosciamo tutti. Neppure lui credo sospettasse un destino futuro di popolarità catodica. Questo toscano classe 1958, con studi di teologia nella zucca, era noto tra gli addetti ai lavori poiché consigliere intellettuale di Silvio Berlusconi. In quelle vesti si sussurrava avesse concepito e messo in pagina il programma liberal-cristiano del Cavaliere. Probabilmente un capolavoro, sicuramente l'opera più inutile del mondo, un po' simile al fantastico progetto del Ponte di Messina. Dopo di che Del Debbio, che non aveva voglia di fare il mestiere della pedina, si dedicò alla comunicazione e all'economia, sfornando volumi di alta classe, ottenendo cattedre universitarie, pubblicando editoriali di pregio. Cercai di ingaggiarlo per il nascente quotidiano che stavo fondando, si disse dispiaciuto, tuttavia aveva altro in mente, e forse c'era stato qualche consiglio arcorese che non aveva potuto trascurare. Un «no, mi spiace», espresso con classe, del resto stava entrando come un esploratore di cose nuove tra le onde di Mediaset. Eccomi al punto. Chi per primo mi tracciò un ritratto splendente di Paolo Del Debbio, indicandomelo quale uno dei pochissimi uomini di cultura vera e non abborracciata della scena pubblica italiana, e di sicuro il migliore nel centro-destra col trattino, fu Francesco Cossiga. Scrivo «fu» accanto al nome del Gatto Sardo, e se avessi tra le dita la penna invece dei tasti calcherei quelle due lettere fino a bucare il foglio. Non mi rassegno a questo «fu», mi fa rabbia ancora se ne sia andato presto. Provo un senso di vuoto e di rimpianto a proposito di lui e di Oriana Fallaci. Mi scuso e procedo. Cossiga mi raccontò di Del Debbio che passava come lui le vacanze in Inghilterra e Irlanda, entrambi studiosi di Tommaso Moro e del cardinale Newman. E di che Paese triste fosse l'Italia che non sapeva portare in alto un uomo come quel giovanotto «che si era laureato su Maritain». Ora trovo a pagina 168 queste cinque righe, che però sono il centro del libro, e del modo di intendere la vita, l'educazione, l'amicizia, il rapporto tra le persone di Del Debbio (e Cossiga). Cito: «Come recitava il motto sullo stemma di un grande teologo e cardinale inglese, che è stato fatto santo lo scorso 13 ottobre, Henry Newman: "Cor ad cor loquitur", "il cuore parla a un altro cuore". E, potremmo dire, l'umanità di un corpo parla all'umanità di un altro corpo. E di un'altra anima». Lo scopo del volume di Del Debbio, che mi fa capire tanta della sua televisione, accusata stupidamente di populismo, è proprio questo: bucare il cristallo apparentemente infrangibile della solitudine in cui si trovano sperduti tantissimi giovani, coi loro padri, madri e nonni, che bussano invano a quella porta blindata. Da dietro esce un grido che chiede soccorso. Solo adulti consapevoli possono venire in soccorso alla «Incertezza di una generazione» (recita il sottotitolo). Ma lo siamo? Almeno proviamoci. di Vittorio Feltri

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