Addio a Gregotti, l'architetto dell'austerità (a dir poco)
“Se anche progettasse una villa hollywoodiana, la farebbe a forma di carcere”. Quando qualche anno fa, in un ritratto su Artribune, Luigi Prestinenza Puglisi descrisse l’archistar Vittorio Gregotti come un “anti-empatico” privo di senso della levità e del dettaglio e con un gusto di preminente ispirazione sovietica, be’, suscitò l’irritazione di metà dell’intellighenzia italiana. L’altra metà, però, era d’accordo con lui.
Ma che fosse un genio dell’architettura o un uomo di potere meno talentoso in grado di indirizzare gli stili e la politica culturale italiana, la notizia della sua morte, oggi, a 92 anni, dovuta al Coronavirus (il primo caso di un artista in senso lato), riporta Vittorio Gregotti al centro dell’attenzione. Blindato nella sua bella casa milanese, coccolato dai salotti che contano -soprattutto da quelli del Corriere della sera di cui era pregiata firma- il patriarca per almeno tre generazioni di professionisti viveva ormai dei riflessi di un luminoso passato, avendo chiuso lo studio di via Bandello, da 40 anni war room dei progetti più noti e invidiati della nazione. La sua biografia è abbastanza nota. Nato provincia di Novara, il 10 agosto 1927, Gregotti si era laureato in architettura nel 1952 al Politecnico di Milano. La sua opera si lega inizialmente al suo maestro Ernesto Nathan Rogers, a quei movimenti come il Neoliberty di reazione al Movimento moderno ed alla sua interpretazione italiana definita “Razionalismo italiano”; di questo genere l’esempio più significativo è il palazzo per uffici a Novara del 1960. Arriverà, poi, a progettare una megastruttura architettonica per le università di Palermo (1969), di Firenze (1972) e della Calabria (1974). Nel frattempo, l’architetto, un po’ figlio di Togliatti, di Stalin e del comunismo, coltiva una faconda attività pubblicistica (più o meno un libello all’anno, il più noto è Il territorio dell’architettura) e bordeggia con stile le sale del potere. Sodale del PCI ma figlio di un borghesissimo dirigente industriale col culto della produzione, Gregotti è stato quindi barone universitario e direttore di riviste storiche come Casabella, fiancheggiatore delle avanguardie artistiche tipo di Gruppo 63 di Umberto Eco e Nanni Balestrini e frequentatore -solo da studente- del Ciam il Congresso Internazionale di Architettura Moderna che i sostenitori ritenevano la Nato dell’architettura e denigratori una sorta di Bilderberg del settore. Gregotti, come tutti i veri comunisti, è stato per decenni una voce tonante, autorevole e autoritaria dell’architettura moderna. Lo stile, la fama e la tenacia, perfino la cultura gli erano universalmente riconosciute. Il suo problema, però, erano le opere. Che appunto, suscitavano, al contempo, infiammati entusiasmi e critiche feroci. Dalle case veneziane di Canaregio al masterplan per l’università Bicocca, Gregotti nei suoi progetti aveva sempre in testa il tempo delle fabbriche dei grandi capannoni, della sirena del cambio di turno e del rigore e della frugalità della classe operaia. Fu da questa concezione minimalista che nacque il suo progetto dello Zen, il quartiere popolare di Palermo. Onestamente una delle esperienze peggiori dell’urbanistica italiana; al punto che, il collega Massimiliano Fuksas ne proporrà la demolizione. Gregotti ha sempre dato la responsabilità del fallimento del progetto dello Zen, un falansterio sbagliato in tutto, al fatto che non sia mai stato ultimato a causa di infiltrazioni mafiose nella fase di appalto. Non che avesse tutti i torti. Però quando Le Iene gli chiesero se lui avesse voluto vivere in quel enorme cubo di cemento armato lui rispose -a memoria-: “Che c’entra, io sono un architetto”. In realtà c’entra. Gregotti, in questo, è sempre stato l’anti-Renzo Piano o l’anti Zaha Adid. Non ha mai messo al centro del suo precetto architettonico la bellezza, la leggerezza e una certa idea creativa dell’abitare. Nel progettare era austero e razionale. Scrisse sul Corrierone: “L’ideologia della globalizzazione della cultura come unificazione solo economica e supertecnica (cioè verso la fine della modernità) sembra nei nostri anni fatale e vincente, con la deformazione mercantile che la alimenta, per mezzo di una travolgente comunicazione persuasiva immateriale, le dipendenze dal sistema dei poteri finanziari, con il tramonto dell’era industriale e delle relative organizzazioni sociali e culturali”.
A sua giustificazione c’è da dire che applicava quest’austerità da -appunto- caserma, anche e soprattutto a se stesso: nei rapporti umani, nella gerarchia dei valori, nel rigetto delle sperimentazione e di una certa modernità. Basandosi sull’insegnamento di Rogers, e prima ancora di Sartre, egli riteneva che l’architetto dovesse essere per prima cosa un intellettuale acceso dalla passione della militanza. E’ sempre stato coerente al suo modello e su quello ha forgiato e mandato avanti schiere di architetti sostenendo con forza la costruzione di un solido sistema di valori. Che non è il mio. Ma, ciononostante Gregotti rimane una voce potente del XX° secolo…