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Matilde Bernabei: "Da Doc ai Diavoli, vi racconto la mia Lux dei successi"

 Matilde Bernabei

La presidente della casa di produzione più famosa d'Italia racconta se stessa dal papà Ettore al marito Giovanni Minoli

Francesco Specchia
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Matilde Bernabei è una gentile signora fatta di creatività e tungsteno; qualcuno dice un incrocio fra Margareth Thatcher e Maria De Filippi, ma forse è un po’ riduttivo. Dalla sua casa di Roma -in un ex convento del 600- a 65 anni, la signora presiede, in modo tutt’altro che claustrale, la sua Lux Vide che in questi giorni sta frantumando i record della fiction della tv in tempo di Covid, con Doc, la serie ospedaliera su Raiuno e, contemporaneamente con I Diavoli affresco della finanza spietata su Sky. Senza considerare gli sfracelli d’ascolto all’acqua santa, da 12 anni, dell’inesausto Don Matteo. In più, Sergio Mattarella l’ha nominata Cavaliere del Lavoro, prima donna italiana dell’audiovisivo. Matilde è il punto di snodo dell’industria d’un settore in quarantena.

Matilde, da quando lei, nel ’92, con suo padre Ettore, storico patròn della Rai, ha fondato la Lux con la miniserie sulla Bibbia (venduta in 144 paesi)  frequentando le tematiche religiose, i vostri successi sono innaturali. Siete raccomandati dall’Onnipotente?

 “Veramente abbiamo dovuto sospendere tre produzioni tra cui Buongiorno mamma per Mediaset. E, soprattutto Leonardo Da vinci, roba da 25 milioni di euro. Lo stavamo girando nel 6000 metriquadri del nostro studio al Formello a venti minuti da Roma. Ma ci siamo dovuti bloccare sulle riprese in Toscana e a Milano. Ero a Milano a discutere il progetto col governatore lombardo Fontana proprio mentre gli è esploso il bubbone del virus”

Non potete proprio lamentarvi. Doc, la storia del primario che perde 12 anni di memoria e da urticante diventa empatico con i pazienti, ha fatto 8,6 milioni di spettatori. E l’avete mandato in onda monco, senza aver finito di girarlo. Con la botta di fortuna che il tema “ospedale” ora va da pazzi…

“Be’, il momento storico del Coronavirus è di particolare interesse per medici e infermieri; ma, poi, non era detto, perché la gente poteva anche avere il rigetto degli ospedali. E comunque, sì, ci mancavano 4 puntate. Ma funziona perché ricalca gli schemi narrativi della Lux: non offrire solo squarci di speranza ma delle vere e proprie ipotesi di soluzione dei problemi reali che noi affianchiamo allo svago per il telespettatore. E questo ha portato, per dire, la Sony ha chiederne i diritti per una versione americana, anche se per ora pensiamo di esportare la serie originale…”

Però I Diavoli tratta dal libro di Guido Maria Brera è tutt’altro: denaro, finanza, banche, inganni. Suo padre -morto nel 2016- l’avrebbe apprezzato?

“E’ una serie partita con Sky Italia, diventata internazionale, coprodotta con Nbc Universal. Mio padre aveva letto il libro con l’occhio di chi interpreta i fatti dal “dietro le quinte del mondo”, di chi vede oltre la prima impressione delle realtà: un metodo che, da sempre, ha impartito a me e mio fratello Luca che è l’ad della società. Quando  papà è morto, abbiamo pensato di portare avanti il progetto".

La Lux ha 120 produzioni a catena, 1000 ore di fiction, 50 dipendenti fissi e 500 impiegati nelle troupe, 60 milioni di fatturato. L’impressione è che tutto sia calcolato nel dettaglio. Non è un modello industriale più americano?

“E’ ispirato agli Usa. Abbiamo ampi e comodi spazi di lavoro, uffici le cui pareti sono lavagne giganti su cui poter scrivere un’idea. Il ciclo produttivo parte dalla writers room fatta di story editor interni e di scrittori, e dal concept; poi facciamo uno studio sui target lavorando molto con i giovani (con un grande serbatoio di professionisti dal Master milanese della Cattolica di Fumagalli) professionisti; dopo analizziamo l’intreccio dei sottogeneri; infine pensiamo a strutturare dei personaggi che vivono nel tempo e studiamo nuove tipologie e modalità di ripresa (come in Doc). Ecco, solo allora iniziamo a lavorare davvero su soggetto e sceneggiatura”.

E’ vero che quando fate le coproduzioni internazionali pretendete sempre una buona quota di lavoro per le squadre dei nostri sceneggiatori, costumisti, attori, e per le maestranze italiane?

“Rigorosamente. Ma il problema vero, ora è che non possiamo fermarci. Le misure del governo e dei Beni Culturali devono servire a riattivare un’industria come la nostra che è strategica (un giro d’affari di 6 miliardi l’anno, ndr). Tra l’altro, la situazione per il teatro e per i cinema è diversa rispetto a chi, come noi, produce per la tv senza contatto col pubblico. Confido che si riparta, sennò sarà durissima”.

Il governo, tra decreti e raccomandazioni delle “Fase 2” si sta comportando bene?

“Ora noi stiamo usando la cassa integrazione laddove molti altri colleghi, anche in Europa, licenziano per giusta causa. Spero che la politica abbia una visione, che anche il presidente Conte dimostri coraggio almeno quanto gli imprenditori che rischiano del loro. In fondo, io vedo tutto questo come crisis opportunity: entro giugno sono sicura che si potrà riprendere a girare, magari nelle zone più gestibili dal punto di vista sanitario come Roma o tutto il sud che potrebbe veder riaccendere la propria economia. Hai presente il ponte Morandi ricostruito a tempo record saltando tutta la burocrazia? Ecco, dimostra che si può fare: dev’essere il modello per un nuovo Piano Marshall”

L’Apa, l’associazione produttori di cui lei fa parte, ha imposto protocolli rigidissimi per girare. Ma -chiedo- non sarà complicato rispettare il distanziamento nelle scene d’amore o di lotta?

“Stiamo studiando il problema. Con una particolare scelta di campi e controcampi, con tamponi e analisi sierologici agli attori. Ripeto: fare l’imprenditore, qui, è un atto di coraggio. Sai quante volte non ho dormito la notte? Per esempio, per aver cominciato una produzione senza aver trovato tutti i finanziamenti. Ecco lo stato d’animo è questo”

Lei però, scusi, dovrebbe esserci abituata. Non ha cominciato a fare impresa sociale in Africa abbandonando una carriera da giornalista?

“Sono nata col pallino di fare la giornalista. Ma quando, giovanissima, iniziai a Panorama dovevo adeguare lo stile a dei formati che cambiavano il senso stesso dei pezzi. Così andai a lavorare alla Asip, in una onlus tra Angola, Costa d’Avorio, Somalia; insegnavamo a pescare invece che regalare il pesce, costruivamo aziende nel settore dell’agricoltura e dell’artigianato”.

Poi, all’improvviso, è passata dal terzo settore all’industria pesante. Come è avvenuto?

 “Poi, siccome il nuovo ad della Montedison che stava fallendo, Schimberni, aveva bisogno di fare progetti e creare nuovi posti di lavoro nel mezzogiorno, mi chiamò. A 26 anni divenni la più giovane dirigente italiana. Da lì, la Montedison che era proprietaria del Messaggero mi mandò, a fare l’amministratore delegato del giornale. Avevo 33 anni”

Be’, amministratore delegato di uno dei primi giornali italiani da donna giovane, mette in discussione tutte le dicerie sulle quote rosa…

“Le quote rosa servono a scuotere, a spingere al rispetto della capacità di utilizzo del cervello multitasking delle donne; ma questo non deve essere un’imposizione. Ricordo al Messaggero, direttore Pendinelli, l’ottimizzazione di 50 giornalisti assunti per allargare le cronache del Lazio, o le iniziative dei giochi come il Supertesoro (un’evoluzione del Portfolio di Repubblica); e l’aumento delle pagine di ricerche di personale da 2 a 8, spostate dalla domenica giorno di maggior vendita al sabato. Aumentai sempre i lettori, e lì capii cosa volesse dire fare l’editore. Per cui, quando fondammo la Lux, non ero esattamente una principiante…”

Quindi la nomina a Cavaliere del Lavoro un po’ se l’aspettava?

“No. Ma ho scoperto che diventare uno dei 25 imprenditori nominati dal Presidente della Repubblica su migliaia che lo richiedono, è difficilissimo. Ti fanno le analisi del sangue. Il mio cavalierato sarebbe piaciuto a mio padre. Lui mi ha instillato sin da quando ero 14enne il concetto basilare che ognuno dovrebbe dare il suo contributo per migliorare il mondo”.

Non è una concezione un po’ ingenua? Suo padre, grande dominus della Rai, in fondo non conosceva bene anche gli equilibri della tv di Stato, quella del “prendiamo un democristiano, un socialista, un comunista e uno bravo”…?

“Sarà ingenua. Ma papà, oltre ai lottizzati politici, dava importanza alla quota dei “bravi”, “tanto”, scherzava “ci penso io a trovargli, poi, un partito di riferimento”. Lo hanno riscoperto come grande innovatore e mentore soltanto dopo il suo periodo da dominus in viale Mazzini, prima era considerato sbrigativamente un’espressione della politica”

Suo marito Giovanni Minoli, invece, quando l’ha sposato era già un enfant prodige. Siete insieme da 40 anni, avete avuto una figlia e due nipoti. Continua a funzionare?

“Mi sono sposata molto giovane, a 20 anni, ne avevamo nove di differenza. Giovanni ha intravisto in me delle qualità che non credevo di avere. Il nostro matrimonio è un lungo viaggio tra comunanze di impegni e di valori. Abbiamo, non lo nego, avuto, dei momenti di difficoltà; ma i siccome i problemi si affrontano e non si mettono sotto il tappeto, alla fine ci siamo sempre riscelti e ritrovati. Questo ha dato al rapporto una specie di freschezza della novità. E abbiamo cresciuto una figlia, Giulia, che ha una sua onlus, lavora nel sociale, fa progetti sulla legalità, e si cura dei figli che la fanno impazzire in questo periodo di arresti domiciliari per Coronavirus”

C’è stato un momento in cui Minoli pareva dover diventare direttore generale della Rai. Un eventuale conflitto d’interesse non avrebbe messo in difficoltà suo padre?

“Quando Giovanni poteva diventarlo, avevamo pensato di organizzare un trust. Non nego che non la prese bene; e forse, per la carriera, mio padre è stato per lui un handicap. Ma in fin dei conti, Giovanni fa parte della storia, è uno dei più grandi inventori della tv italiana; se non l’hanno fatto direttore generale è perché, alla fine, anche i politici più decisionisti hanno pensato che non sarebbe stato facilmente domabile”.

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