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Mattia Ferrari: "Nella moda sparite tante cose superflue", il celebre art director si racconta

Francesca Carollo
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Mattia Ferrari, nemmeno 30 anni, uno degli art director più influenti al mondo, così incoronato dalla rivista-simbolo della moda, Vogue. La sua storia parte dall'operosa provincia veneta, per sbarcare a Los Angeles e tornare poi in Italia.

Lei ha 28 anni, viene da Sandrigo, in provincia di Vicenza, cosa l'ha portata ad andare giovanissimo oltreoceano?

«Avevo 16 anni. La mia era una famiglia normale, io sognavo in grande, e decisi di trasferirmi a Los Angeles. Il primo giorno con i pochi soldi che avevo mi sedetti da Nobu a prendere un drink. Al tavolo di fianco al mio c'era Paris Hilton con le amiche. Mi invitò ad aggiungermi a loro. Mi portò alla Playboy Mansion e iniziai a uscire con lei e il suo entourage. Da lì allargai il mio giro. Iniziai a occuparmi di pubbliche relazioni, ma capii che la città giusta era New York. Mi spostai nella Grande Mela».

E lì cosa succede?

«Osservai la città, intercettai i club più belli. Da lì ho iniziato a guadagnare. Dopo due anni a New York decisi di tornare in Italia. Studiai economia e finanza, nel frattempo mi occupavo di immobiliare. Mi ero trasferito a Milano. Una sera a una cena di beneficienza ho coinvolto una mia amica, modella, invitandola al tavolo di Bulgari e presentandole il direttore marketing. Sapevo che sarebbe stata perfetta per Bulgari, così le ho detto di cercare con i suoi agenti di firmare un contratto con loro e mettere nelle clausole me come art director. Ci riuscimmo. Si trattava della campagna pubblicitaria per i loro social».

Non male iniziare con un marchio come Bulgari.

«Un mese dopo infatti ho aperto la mia agenzia, la "Arnold Creative Communication". Oggi ho 5 persone nel mio ufficio alle spalle di Corso Venezia e un ufficio a Londra».

Cos' è un art director?

«La figura dell'art director fa da collante con tutto il team di una campagna pubblicitaria, detta le regole del tema della campagna, coordina fotografo, stylist, modelle, è colui che, d'accordo con la casa di moda, determina lo stile che il marchio vuole mostrare ai consumatori. Mi sono trovato sin da subito a seguire le campagne - sempre nei social- di brand del lusso come Versace, Chopard, Dior, Ermanno Scervino, Casadei, H&M, Moschino, Iceberg».

Il mondo degli influencer che futuro ha?

«Sono in tanti a voler fare l'influencer, ma di veri ce ne sono pochi. Sono gli stessi che hanno iniziato dieci anni fa. Con 100mila followers si sentono influencer, ma secondo me lo è chi ha una credibilità, come Chiara Ferragni in Italia o in America le sorelle Kardashian».

Con la pandemia cos' è cambiato nella moda?

«Una volta le collezioni in passerella si vedevano nei negozi dopo sei mesi, adesso, già alle sfilate, le modelle pubblicano i look che indossano. Ecco perché si e arrivati al "see now by now", cioè alla possibilità di comprare subito i capi delle sfilate. La pandemia ha bloccato tutto. E in questo voglio vedere il lato positivo, cioè che a livello di comunicazione ha fatto pulizia e ci ha fatto riflettere sul superfluo di questo mondo. Anche io ho imparato a ottimizzare i contatti. Chiudo il 2020 con contratti già chiusi, per il 2021, di un milione di euro».

Cosa sogna per il 2021?

«Sogno di lavorare con un marchio straordinario: Chanel».

L'art director si occupa anche dello stile di personaggi pubblici?

«Certo, è un buon business. Io l'ho fatto per la modella Adriana Lima, per Caroline Vreeland, la nipote di Diane Vreeland, la giornalista di moda icona di stile negli anni '60 e per le sorelle Gigi e Bella Hadid. Seguo personaggi internazionali. Non ci sono cifre standard, si va a progetto. Parliamo anche di 10mila euro per una consulenza singola, ad esempio per la scelta di un abito per una festa come gli Oscar. Penso in americano, ma ricordo da dove vengo, e ogni volta che torno a casa mi porto poi via qualcosa dalla mia terra».

 

 

 

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