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Roberto Speranza, Alberto Mingardi lancia l'allarme: "Lui è sconfitto, ma la libertà è ancora a rischio"

Gianluca Veneziani
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Non ci saranno più soltanto quattro amici al bar o al ristorante, ma si potrà essere in sei al chiuso e in numero inde- finito all'aperto in zona bianca. Pare una conquista rispetto alle restrizioni degli ultimi mesi, ma sarebbe meglio non accontentarsi, come suggerisce il prof. Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni.

Mingardi, ieri ha vinto la linea degli aperturisti. È la sconfitta definitiva di un modello di Stato repressivo e paternalistico?

«Purtroppo no. Quello che è successo nell'ultimo anno avrà conseguenze in futuro. Oggi siamo in una condizione felice: label la stagione e le vaccinazioni ci aiutano nel contrasto al virus. Ma la questione rilevante sarà vedere cosa succede con il ritorno della brutta stagione o alla prossima emergenza. Il motivo di preoccupazione di quanto accaduto nell'ultimo anno non sta solo nella cosa in sé, ma nel fatto che costituisce un precedente. Ora stiamo discutendo di quale sia il numero massimo di persone con le quali si può andare a cena: due anni fa questo tema non faceva parte neppure lontanamente di qualsiasi discussione sulla libertà politica e sulla convivenza civile, perché nessuno pensava che lo Stato si dovesse occupare delle nostre cene».

Insomma, passeranno Speranza e i suoi provvedimenti, ma resterà lo Stato Leviatano?

«Guardi, noi abbiamo combattuto la pandemia attraverso una serie di divieti da parte del potere statale, anziché scommettere sul fatto che la società potesse trovare delle forme di auto -organizzazione. Inoltre abbiamo assistito all'ingresso dello Stato nelle nostre case e nelle cucine dei ristoranti in una maniera senza precedenti. Non vorrei che anche l'estensione del numero di posti a tavola si riducesse a una concessione dello Stato paternalistico che, bontà sua, ci consente la libertà di mangiare con più di tre amici».

 

 

 

A livello politico crede però che questa decisione segni una débâcle dei giallorossi?

«A mio avviso segna la vittoria degli italiani e la sconfitta di un modello ansiogeno che ha trovato nel ministro Speranza il suo campione. Credo che questa decisione rappresenti il trionfo del realismo. Le restrizioni fin qui sono state estremamente pesanti e anche curiose: non colpivano libertà estreme, ma configuravano un'espiazione collettiva rispetto a libertà banalissime, come quella di fare shopping o cenare».

Vince il realismo, ma finora chi ci governa si è dimostrato molto distaccato dalla realtà...

«Questi mesi ci hanno detto quanto certa intellettualità di sinistra, che ha una presa molto forte sui partiti, odi la libertà economica in ogni sua manifestazione e disprezzi la gente comune e le sue esigenze. E ci hanno anche confermato quali siano i ceti a cui la sinistra parla davvero: e cioè il pubblico impiego e i "garantiti", a cui piace simpatizzare coi più deboli ma che sono incapaci di mettersi nei loro panni».

Il distacco dalla realtà si è associato a un tentativo di trasformare la realtà sulla base dell'ideologia. Quali ne saranno gli effetti?

«Spero che, alla lunga, la vita sia più forte dei divieti. Ma indubbiamente la pandemia è stata intesa da alcuni come un'occasione per cambiare i consumi e le abitudini delle persone. Un conto è contrastare i contagi, altro è un progetto di ingegneria sociale, come quello di cui ha parlato Speranza nel suo libro».

 

 

 

Il superamento del limite delle 4 persone al tavolo è stato caldeggiato dalle Regioni. Chi opera sul territorio è più lungimirante dello Stato?

«Da parte degli enti locali c'è da sempre una maggiore, se non capacità, almeno necessità di ascolto delle esigenze dei cittadini, perché quelli sono i loro elettori. Sindaci o assessori regionali comprendono meglio chi è stato spiazzato dalla pandemia e ha perso reddito, attività, oltreché socialità. E qua mi riferisco ai più giovani: sarà interessante capire se la gestione della pandemia produrrà una generazione di elettori libertario di persone impaurite».

Coi vaccini stiamo riguadagnando la libertà dal Covid. Quanto sarà difficile riprenderci la libertà di socializzare e fare impresa?

«Questo dipende sia da chi ci governa sia dalle persone e dalla loro voglia di vivere. Per quanto riguarda la libertà economica, bisognerà vedere come il governo ricostruirà la fiducia delle persone: ai tanti rischi con cui un imprenditore già si confrontava si aggiunge il rischio che durante un'emergenza un esercente non possa più lavorare. Del resto l'ultimo anno ha dimostrato che non basta ristorare: le persone hanno voglia di fare, non solo di incassare un sussidio».

La gestione del Covid ha rafforzato i poteri dello Stato o lo ha svelato nella sua impotenza?

«Sicuramente lo Stato ha aumentato la sua impronta, ma mi viene difficile sostenere che abbia fatto bene: anzi, se ne sono palesati tutti i limiti. Abbiamo perso tante opportunità, proprio perché non ci siamo affidati a sufficienza alla responsabilità individuale e ai corpi sociali».

Data l'invasività del potere centrale, la reazione sarà l'accresciuta diffidenza dei cittadini rispetto allo Stato?

«È lo Stato in primis a non essersi fidato dei cittadini: non li ha considerati persone responsabili, cosa paradossale visto che gli italiani hanno dimostrato grande responsabilità. Dall'altro lato, fino a poco fa la maggioranza dei cittadini era contenta delle risposte del potere centrale. Ora pare non essere più così. E, se l'Italia crescesse poco a livello economico, inevitabilmente aumenterebbe nel Paese la diffidenza insieme alla rabbia sociale». 

 

 

 

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