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Michela Murgia, questo simbolo (∂) al posto del maschile: l'ultima "acrobazia sessuale" di una fanatica

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Massimo Arcangeli
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Il 15 novembre 2017,in un articolo per l’Espresso, la scrittrice Michela Murgia propose di sostituire patria con matria per rimediare ai danni arrecati dal patriottismo nazionalista del maschio prevaricatore. Tra patria e matria, secondo lei, correva la medesima differenza esistente «tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque». Un modo inutilmente antagonistico, e lessicalmente stravagante, per affrontare il tema.

Ora Michela Murgia, usando lo schwa (∂) nei suoi pezzi giornalistici, ci ricasca. In principio fu lo slash ("Caro/a collega"). Poi è arrivato l'asterisco ("Car* collega"). Quindi è stata la volta dell'ispanizzante chiocciolina informatica ("Car@ collega"), censurata dalla Real Academia al pari di vocali mediane (la e dito des, per todos e todas) e della x (todxs). Ora siamo alla proliferazione incontrollata: "Caro(a) collega", "Caru collega", "Carx collega", "Caro.a collega", "Caro -a collega", "Care collega", "Car3 collega" (3 è lo schwa "lungo"). Echi più ne ha più ne metta.

 

 

 

 

Ecco l'ennesimo parto impazzito, spacciato per buona pratica d'inclusione, di un politicamente corretto i cui fanatici pretendono di "neutrificare" la lingua senza avere la più pallida idea di cosa significhi scrivere o parlare. "Care collega", "Car3 collega" o "Caro -a collega", importate in un libro, un documento o un articolo di giornale, sono aberrazioni gra fiche, associazioni grammatica lia delinquere. C'è chi sostiene che lo schwa, rispetto all'asterisco, si può pronunciare, e che la pronuncia in questione, indicando un suono vocalico intermedio, si presterebbe bene allo scopo di rendere il neutro: fra una o e una a ("Care collega"), oppure fra una i e una e ("Care collegh").

Basterebbe già questo, ma qualcuno aggiunge che si tratterebbe solo di estendere all'Italia intera certi usi dialettali (chessò, dal napoletano) o di prendere esempio dall'inglese, che di suoni vocalici mediani se ne intende. E se vogliamo scrivere "Cari amici, care amiche"? Optiamo per "Care amic(h), per dire a chi legge - il problema si pone anche per gli altri caratteri "jolly" - che l'h può esserci o no? Tanto varrebbe ripiegare allora su "Cari/e amici/che". Stiamo parlando di modi - non importa se ingenui, bislacchi o maliziosi - del tutto sbagliati per risolvere il problema dell'inclusione. Sono grammaticalmente peregrini, e per giunta, in contesti d'apprendimento, molto pericolosi.

Se ne sono accorti ultimamente i nostri cugini francesi. Il 4 maggio scorso il ministro dell'Istruzione, Jean-Michel Blanquer, ha inviato ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale una circolare che vieta di usare forme grafiche colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di complicare la lettura del francese. La storica Hélène Carrère d'Encausse, segretaria permanente dell'Académie française, e lo scrittore e critico letterario Marc Lambron, nella premessa al testo, hanno accusato i paladini dell'écriture inclusive di brutalizzare, in modo totalitario e arbitrario, i ritmi naturali dell'evoluzione linguistica. Nel 2017 un'altra circolare (22 novembre), emanata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del Governo a rinunciare al la scrittura inclusiva, per intelligibilità e chiarezza, nei documenti ufficiali destinati al pubblico. Uno dei principali imputati era, ed è ancora, il "punto mezzano" (point médian).

 

 

 

 

Immaginiamo che qualcuno un certo giorno ci dica: «Senti, da oggi in poi non parlare più di me dicendo lui o lei. Usa loro». Qualcosa di simile è in realtà già accaduto. Il 19 maggio scorso Demi Lovato, che si è dichiarata bisessuale al primo stadio, genderfluid al secondo e non -binary al terzo, nell'inaugurare un nuovo pod cast (4D With Demi Lovato) ha annunciato di aver deciso di abbandonare per sé, da gender neutral o non -conforming, i pronomi soggetto e oggetto dell'inglese per dire "lui" (he/him) o "lei" (she/her). Non per sostituirli con it ("esso, essa"), il neutro corrispondente, bensì con they/them ("loro").

D'ora in poi, per gentilezza, ci si dovrà rivolgere alla cantautrice americana, quasi fossimo al cospetto di un concentrato di tutte le identità possibili, col pronome personale di terza plurale. Intanto, nell'attesa che qualche buontempone proponga anche da noi un bel loro, una soluzione è già bell'e pronta. Bocciato l@i, inadatto al di fuori dell'alternanza o/a, scartati gli antieconomici luie e lei, lu.e.i e le.u.i, lu(e)i e le(u)i, giubilati gli ancor più sovrabbondanti lu.le.i, lu(/e)i o le(/u)i, e silurati anche i "muti" e poco perspicui l*i e lxi, il candidato perfetto è li. Anzi, secondo i titolari di un sito per l'inclusione (https://italianoinclusivo.it/scrittura), potremmo usare e per il singolare il/lo/la l; andato/a andat) e 3 per il plurale (i/gli/le l3; andati/e andat3). Ho parlato di buontemponi, ma avrei dovuto dire intelligentoni. 

 

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