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Luca Barbareschi, le verità su Giorgia Meloni: "Chi è davvero e perché la stimo. Io ministro... ?"

Gianluca Veneziani
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È una storia di sfruttamento della prostituzione che si intreccia con la grande storia del terrorismo rosso anni '70 a Milano. È il ritratto di un dramma familiare legato ai misteri irrisolti d'Italia. Il nuovo film prodotto da Luca Barbareschi, Appunti di un venditore di donne, tratto dall'omonimo bestseller di Giorgio Faletti, diretto da Fabio Resinaro e in prima visione assoluta su Sky Cinema Uno il 25 giugno e disponibile on demand e in streaming su Now, si fa apprezzare per il riuscito adattamento del libro, la qualità degli attori (il protagonista Mario Sgueglia, Paolo Rossi, Miriam Dalmazio, Libero De Rienzo, Francesco Montanari, Michele Placido), ma anche per la narrazione cruda e il linguaggio scorretto.

Barbareschi, il film è un tributo al fascino cupo della Milano anni '70?

«La sua forza è nel tema portante: Crono che si mangia i figli, i grandi vecchi che nascondono le verità per mantenere le posizioni di potere. E così danneggiano il Paese e la loro famiglia. Già è terribile che in Italia siano state secretate le storie delle stragi. È peggio ancora se un padre devasta la vita del figlio, pur di non perdere il proprio ruolo».

Quanto è distante l'Italia di oggi da quell'Italia così cruenta?

«Oggi è solo vestita più elegante, è più ricca senza avere affrontato i problemi che la dilaniano. È un'Italia più concentrata sulle libertà esteriori, che vive di superficie senza badare alle cose più profonde. Ed è anche un Paese prigioniero del politicamente corretto, il vero cancro del pensiero occidentale».

Il film non obbedisce però agli standard della "correttezza". Vi si parla di mercimonio di donne, si usano termini come «f***», «cieco», «p****». Non teme che le si scaglino contro i censori di professione?

«Il politicamente corretto andrebbe abbattuto insieme a chi l'ha pensato, perché il giudizio morale sull'arte è devastante. Se io racconto gli anni '70, quando a Milano si diceva "f****", "pirla", "testa di c****", non posso mica inventarmi un nuovo linguaggio. È la stessa ipocrisia delle regole dell'Academy Award per cui nei film ci dovrà essere una quota del 30% di donne, membri Lgbt, minoranze. È una cosa comica perché, se dovessi girare un film sullo sbarco in Normandia, dovrei arruolare giocoforza i nani, ma non potrei farlo per una semplice ragione: i nani affogherebbero».

Nel film due personaggi hanno degli handicap: uno è evirato, l'altro cieco. Si può parlare di menomazioni senza offendere?

«Sì perché, se adottassimo la logica del "non offendiamo", dovremmo buttare via Shakespeare, che era del tutto politicamente scorretto. E poi: come potrei definire uno che non vede, se non "cieco"? E un evirato dovrei per caso chiamarlo "diversamente eretto"?».

 

 

 

 

 

 

Si azzarderebbe mai a usare in un film parole come «f***», «n****»?

«Dipende da come le usi. Vale lo stesso discorso delle parolacce. Per David Mamet feci 40 anni fa lo spettacolo Glengarry Glenn Ross, dove c'erano tantissime parolacce (tra le altre, «rott*****», «tr****», ndr). Ma erano metafore di una violenza interiore, non c'era mai volgarità. Il problema è quando ostenti delle parolacce solo per scandalizzare: allora diventi volgare. Ma se la rabbia è più forte della parola che stai dicendo, quella parola è giustificata».

Il film sarà visibile in tv e sulle piattaforme. La pandemia ha definitivamente ucciso il cinema?

«Il cinema è vivo, ma è finito il suo vecchio mezzo di fruizione, le sale. È sbagliato proclamare la morte del cinema: è come dire che la gente non beve più acqua potabile perché non scava più pozzi artesiani. Non è vero, la beve ma dai rubinetti di casa».

 

 

 

Intanto però il cinema italiano negli ultimi anni ha vinto pochi premi internazionali.

«Il problema sono i premi che non esistono più in Italia. I David di Donatello ad esempio sono organizzati male, tristi, privi di spettacolo. Noi lavoriamo nello show business e dobbiamo intrattenere il pubblico. Ma se non lo intratteniamo, quello piange».

Con una Meloni premier, farebbe mai il ministro alla Cultura?

«Sono un uomo libero e decido di mese in mese ciò che devo fare. Detto questo, la Meloni è molto in gamba. La stimo profondamente perché sta facendo un lavoro eccellente ed è una donna libera dentro».

 

 

 

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