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Tremonti contro la Ue: "Auto elettrica? Mette il turbo solo alla Cina"

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Giulio Tremonti

Carlo Nicolato
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Alla prima, doverosa, domanda sulla guerra in Ucraina, Giulio Tremonti si prende il suo tempo: nessuno sull’argomento ha una risposta pronta, nessuno può sapere come andrà a finire. «Forse è il caso di applicare anche nei talk show una certa dose di ignoranza scientifica, “so di non sapere”», dice il presidente commissione Affari Esteri della Camera, «eppure potrebbe esserci un’ispirazione in un libro affascinante di Simenon, non un giallo, ma un libro sorprendente intitolato Europa 33 (ed. Adelphi). Sono corrispondenze del 1933 in cui l’autore ausculta un continente che si presenta come malato, contrastato sulla frontiera interna. Parte dal Baltico e finisce sul Mar Nero con una intervista a Trotsky, passa dalle portinerie dei grand hotel per arrivare alle periferie desolate della Polonia. Oggi l’impressione è che il ragionamento non possa essere fermato sullo specifico della guerra in Ucraina e debba per forza essere esteso a uno scenario più generale. A una più vasta cascata di fenomeni».

Nel 2016 Tremonti ha scritto Mundus Furiosus (ed. Mondadori) in cui diceva che la storia tornerà sui suoi antichi luoghi. Così è stato. Già all’epoca si intuivano i segni di una rottura, della fine della globalizzazione. È solo uno dei libri che, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, il professore ha scritto descrivendo le origini e il tramonto della globalizzazione. Dello scorso anno è un libro sulle sette piaghe della globalizzazione (Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile, ed. Solferino), e una di quelle era proprio la guerra alle nostre porte... «La guerra in Ucraina è un segmento di un processo in decomposizione dell’ordine costituito dalla globalizzazione. L’arco della crisi va in Europa dal Baltico al Mar Nero, può estendersi ai Balcani, può risalire all’Artico e nel confornto-conflitto tra Stati Uniti e Cina, tra Atlantico e Pacifico».

In questo confronto l’Europa non rischia di essere tagliata fuori? Tenendo conto che tra l’altro la Ue ha rinunciato ad avere un ruolo autonomo in questa guerra, appiattendosi troppo sugli interessi americani che non sono i nostri.
«La storia dell’Europa contemporanea si sviluppa per fasi e in fondo l’Europa ha solo 70 anni, mentre gli Stati Uniti ne hanno 200 con in mezzo una devastante guerra civile. L’idea politica moderna dell’Europa trova forma a Ventotene nel ’41 in un manifesto in cui si parla di politica estera e un esercito comune. L’Europa poi è nata con il mercato comune (Mec) e quindi con la moneta comune, in questo modo restando nella dimensione economica. Adesso entriamo nella fase politica. Ora si pongono due ipotesi, come si dice in diplomazia: a un tavolo puoi stare come pietanza scritta sul menù o come commensale seduto al tavolo. Se la Ue non fa il passaggio verso la terza fase, che è quella politica, della politica estera sostanzialmente, rischia di finire come pietanza sul menù. Se vai al bar e dici “ci vuole più unione bancaria”, come dicevano ancora poco tempo fa i “grandi” d’Europa- Commissione, Bce ecc -, ti guardano storto, se dici “ci vuole una difesa comune” ti pagano da bere. Non puoi entrare in una fase drammatica politica come questa con il vecchio pensiero del mercato e della finanza. Non è più tempo per finanzieri».

È tempo di politica...
«L’iconografia ha un senso anche in politica. Tre anni fa a Francoforte ci fu il passaggio di consegne tra Draghi e Lagarde. Tra loro dialogano ininterrottamente e sostanzialmente si raccontano quanto sono bravi, sono stati bravi e saranno bravi. In platea ad applaudire ci sono tutti i capi di Stato dei governi Ue. Lei si immagina De Gasperi, Adenauer, De Gaulle applaudire i banchieri? Quella iconografia diceva che allora il potere era passato dai popoli, dalla politica dei governi alla moneta. E questa è una visione che era storta prima ma che certamente è più storta ancora adesso».

Il problema è anche che adesso nemmeno ci sono i De Gasperi e gli Adenauer, il livello politico dei governanti si è abbassato molto.
«Si è abbassato quando la politica ha ceduto alla tecnica, quando ha accettato la chiamata dello straniero. La tendenza è stata estremizzata in Italia quando nel 2011 è arrivata la chiamata del tecnico che doveva evitare l’abisso».

Cioè prima Monti e poi Draghi, cosa pensa di loro?
«Omissis... L’Europa ha poco peso in politica estera perché ha perso la cifra politica interna».

Lei ha detto che l’arco della crisi va dal Baltico al Mar Nero ma può spingersi fino ai Balcani. Recentemente ha scritto un articolo per il Corriere in cui dice che far entrare i Balcani in Europa è necessario ma difficile, ce lo spiega?
«Non puoi ignorare i Balcani, se no sono i Balcani che si occupano dite. Churchill diceva che i Balcani sono un luogo dove si produce più storia di quella che si consuma in loco e perciò la si esporta. Dai Balcani è venuta la Grande Guerra e l’ultima guerra di Jugoslavia che ora tende ad essere ignorata è stata una vera guerra. Non è salita di scala perché l’Urss era finita e la Russia non era ancora tornata alla postura di adesso. Ma allo stesso tempo se i Balcani entrano in Europa si portano il loro caos fatto anche di influenze esterne russe, turche, islamiche e cinesi».

La crisi energetica è finita o il prossimo inverno saremo ancora nella stessa situazione dello scorso autunno?
«Quello dell’energia è un campo in cui abbiamo visto analisi, prospettive e profezie destinate a rivelarsi non proprio fondate. La guerra ha cambiato un modello di import di energia importata a basso costo. Ora dobbiamo inventarcene un altro. E variare i consumi di energia anche perché alla guerra si aggiunge la crisi ambientale».

Di queste ore è la notizia che grazie a Italia e Germania il Consiglio Ue ha rimandato a data da definirsi il voto sul divieto alla vendita di auto a benzina e diesel dal 2035. Questo non vuol dire che il piano è stato bocciato, quella è la direzione e lo è anche per le case. Tutto questo nonostante i problemi energetici attuali e l’inflazione. Ci stiamo tirando la zappa sui piedi da soli?
«Finora lo Stato non disciplinava il tipo di automobile prodotto e dal lato della produzione si occupava solo della tutela dei lavoratori. Da ultimo sono venute leggi sulla sicurezza dei veicoli. Qui siamo nel campo del dirigismo ambientale sostenuto da grandi quantità di ideologia. Come ha detto lei poi non ci sono solo le automobili verdi, la Ue ci vuole imporre anche le case verdi. L’impressione è che sia un po’ eccessivo. La spinta verso un mondo ideale, ammesso che sia ideale, non è sostenibile. C’è un eccesso di dirigismo ideologico che rischia di travolgere le nostre strutture sociali, dal lavoro ai risparmi. La cosa giusta fatta nel momento sbagliato è sbagliata, e qui lo è anche perché forzata sui tempi. Senza considerare gli effetti indotti».

Quali?
«È tutto da dimostrare che con la nuova ideologia automobilistica si risolvano i problemi dell’inquinamento, basti pensare allo smaltimento di batterie. Spiazzi la produzione Ue e trasferisci il potere alla Cina. Il capolavoro è spostare l’asse geopolitico dall’energia russa alle batterie cinesi».

Che ne pensa del nuovo Pd targato Schlein, anche il partito della sinistra italiano è vittima della fine della globalizzazione?
«Siamo alla Bolognina 2.0. Due giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, non un giorno prima, il Pc esce dal vecchio schema “comunista” ancora presente nel suo nome e passa ad uno schema alternativo “mercatista”. Trasferisce i suoi perduti penati da Mosca alla City di Londra, spedisce i suoi pionieri a Wall Street. Nel gennaio del ’95 al Maurizio Costanzo Show un importante leader democratico mi disse: “Siamo stati legittimati dal mercato finanziario internazionale”. Oggi con la crisi della globalizzazione non regge più lo schema del mercato e quindi devi trovare un modello alternativo, non più la fiducia fideistica cieca nell’economia. Sembra stia tornando un catalogo di idee, valori e principi più o meno radicali, certo molto diversi da quelli di prima. È la Bolognina 2.0».

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