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Marco Fortis e le "follie verdi dell'Ue": "Cosa temo ora"

Pietro Senaldi
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Uno dei problemi principali dell’Italia, da decenni, è che si diverte a fare l’uccellaccio del malaugurio di se stessa. Siamo dei fenomeni dell’imprenditoria ma per noi, come per il campionissimo Gino Bartali, è sempre «tutto sbagliato, tutto da rifare». Abbiamo la disoccupazione sotto l’8%, siamo quelli cresciuti più di tutti rispetto ai parametri pre-Covid (+2,2%), abbiamo il più alto rapporto tra investimenti industriali e prodotto interno lordo, secondi solo al Giappone, il nostro export ha superato i 600 miliardi nel 2022, e si muove in tutte le direzioni, secondo la Commissione Europea nell’ultimo semestre di quest’anno la nostra inflazione dovrebbe scendere al 2,6%, eppure aleggia lo spettro della recessione.
«Siamo i distruttori della nostra immagine all’estero, vittime della nostra narrazione depressiva» provoca Marco Fortis, professore di Economia Industriale e Commercio Estero all’Università Cattolica di Milano nonché direttore e vicepresidente della Fondazione Edison. Con il suo libro, “Crescere non è impossibile”, scritto a quattro mani con Alberto Quadrio Cur zio, altro economista della Cattolica, Fortis ribalta il racconto: «Il giornalismo italiano ama descriverci sull’orlo del baratro, sostenere che di base non funzioniamo» spiega il professore. «L’inevitabile conseguenza è che poi le agenzie di rating ci affibbiano una tripla B, perché gli analisti stranieri non conoscono il nostro vivace e competitivo tessuto economico e si affidano solo al rapporto debito/pil e alle suggestioni che noi gli rimandiamo». È un vizio che abbiamo pagato caro già altre volte e sul quale speculano contro di noi gli altri Stati, «come nel 2011, quando un governo cadde per la diffusa convinzione che l’Italia fosse prossima al fallimento, sebbene avesse un rapporto tra debito pubblico e Pil inferiore a quello che hanno oggi Francia, Spagna e Stati Uniti» spiega Fortis.

Professore, il nostro Pil negli ultimi due anni è salito dell’11% e siamo a +2,2% rispetto a prima del Covid, contro il +1,1% di Parigi, il +0,3% di Berlino, lo 0,1% del Giappone e lo 0,1% del Regno Unito: effetto rimbalzo dopo che siamo scesi più di tutti?
«Vede che ci casca anche lei con l’auto-narrativa punitiva? Si consoli, capita anche ad alcun ministri, quando arrivano al governo, di impiegare del tempo a capire che la situazione non è drammatica come se la immaginavano».

E allora come se lo spiega?
«Perché il Paese ha avuto in questi anni un progresso strutturale importante. Sia dal punto di vista delle politiche difensive del potere d’acquisto delle famiglie, che abbiamo fatto più e meglio degli altri dopo il periodo dell’austerità, sia grazie alle politiche di rilancio economico: gli incentivi del piano Industria 4.0 avviato dal governo Renzi hanno fatto sì che oggi l’Italia sia all’avanguardia nell’ammodernamento dei macchinari di produzione. La nostra produttività è rallentata dal settore dei servizi ma a livello di manifattura siamo messi meglio degli altri: come parametri, fatto base 100 l’anno 2015, vantiamo oggi un indice pari a 108 per quanto riguarda il valore aggiunto manifatturiero per occupato contro indici pari a 99 della Spagna, 100 della Francia e 105 della Germania. E poi non dimentichi il boom del turismo, che è volano anche per tante altre attività. Non solo, il fatto negativo che ormai non abbiamo grandi industrie leader ha come contrappeso positivo che ci ritroviamo una straordinaria vitalità in tanti settori, con piccole e medie imprese leader».


Il professor Savona ha detto che l’allarme è dato dal debito pubblico, che diventerà insostenibile, se il costo del denaro continuerà ad aumentare...
«Negli ultimi dieci anni a parte la Germania, che lo ha ridotto dell’8% ma al prezzo di fermare il proprio sviluppo, gli altri Paesi hanno aumentato il rapporto tra debito e Pil più di noi: in punti percentuali del 16% la Francia, del 19% gli Usa, fino al 22% del Regno Unito e al 24% del Giappone, contro il nostro 5%».


Non c’è comunque molto da stare allegri...
«L’importante è non farsi del male con le proprie mani, pratica in cui l’Unione Europea è maestra. Pensi alla crisi mondiale del 2008, innescata dagli Stati Uniti per colpa dei mutui. Di fatto tutte le banche e le assicurazioni statunitensi erano fallite, ma saltò solo Lehmann Brothers, le altre vennero salvate con fortissime iniezioni di denaro pubblico. In Europa invece noi non fummo capaci di fare fronte comune: ci auto-impiccammo ai parametri di Maastricht, il deficit al 3% del Pil, che non è un principio dell’economia. Merkel e Sarkozy aspettarono che le loro banche, fortemente esposte con Atene, rientrassero e poi dissero che anche gli Stati potevano fallire. Si diffuse un clima irreale, da si salvi chi può. La Grecia finanziariamente era un problema più piccolo di Lehman Brothers ma siamo riusciti a farlo pesare come se stesse fallendo una super potenza economica».


Noi pagammo più degli altri: via Berlusconi, dentro Monti, austerità a manetta...
«Sì, pagammo anche per l’incapacità di presentare la nostra situazione per quel che era: le nostre banche non erano esposte sulla Grecia ed eravamo la sola nazione europea in avanzo statale primario da oltre vent’anni».

Ci fu anche una volontà politica dietro tutto questo?
«Non mi addentro. Certo tutto fu facilitato dalla nostra abitudine a descriverci molto peggio di quel che siamo».


Questo governo pare voler cambiare la narrazione...
«L’importante è non cadere schiavi del luogo comune e delle ideologie. In questo senso mi conforta la decisione dell’esecutivo di riaprire le nostre miniere. È un approccio pragmatico e che non si fa dettare l’agenda dalle mode. Le miniere poi non sono più quelle che abbiamo in mente noi, hanno avuto anch’esse un profondo processo di innovazione. È ottimo che il governo riscopra l’importanza strategica di dotarsi di materie prime fondamentali per la nostra industria tecnologica. E bisognerebbe rilanciare anche il nucleare».

Cosa teme di più per il futuro?
«Di finire vittime della politica ideologica europea in tema di ambiente. Vedo tanti errori da parte dell’Europa che fanno male all’industria, in particolare a quella italiana. D’altronde se a dettare la linea è un olandese, Timmermans, non c’è da stupirsi. Quella è una nazione di commercianti, non badano alla produzione. Anzi, per loro meglio che un prodotto sia fatto in Cina piuttosto che in Italia, così arriva al porto di Rotterdam e l’Olanda ci guadagna».

Non dovremmo preoccuparci dell’ambiente?
«Secondo l’Indice di Sviluppo Umano calcolato dall’Onu, che tiene conto della durata della vita, del reddito pro capite, del livello d’istruzione, l’Italia è il trentesimo Paese al mondo. Se introduciamo però come parametro anche il tema del rispetto dell’ambiente, finiamo al terzo posto, superando come sviluppo sostenibile nazioni come il Canada, gli Usa, l’Australia. Nella classifica dell’indice Onu di sviluppo umano sostenibile i primi venti Paesi al mondo sono quasi tutti europei».

L’Europa sull’ambientalismo si sta impiccando con le proprie mani?
«L’ambiente è un tema importante, è sacrosanto tutelarlo ma non riesco a spiegarmi certe posizioni oltranziste contrarie a ogni razionalità scientifica e dettate solo da un’ideologia cieca. Dobbiamo stare attenti a non condannare a morte l’industria europea imponendo una transizione ecologica a ritmi forsennati e senza aiuti strutturali. Altrimenti finiremmo con esportare manodopera nei Paesi inquinanti e importare la Co2 che questi producono mentre ci superano».

Che cosa ha in mente, professore?
«Se l’Europa ha l’ambizione di diventare il faro dell’ambientalismo mondiale e di essere un modello per tutti, sempre che poi qualcuno la segua, il che non lo ritengo probabile, deve costituire un fondo che finanzi la transizione ecologica dei settori più energivori. Vanno emessi eurobond verdi, anche perché c’è mercato e verrebbero venduti. È un passaggio necessario per la sopravvivenza del Continente. Non dimentichiamoci che l’Europa è la seconda potenza industriale al mondo, dietro gli Usa. Sarebbe insensato che rinunciasse a una delle poche leadership mondiali di cui può vantarsi».

È un discorso simile a quello che Draghi ha fatto la settimana scorsa davanti al Bureau di ricerche economiche dell’Università del Massachusetts...
«Da sempre l’ex governatore della Bce spinge perché l’Europa sposti il proprio baricentro decisionale dalla tecnocrazia alla politica per lo sviluppo degli investimenti e dell’occupazione e ragioni con un unico cervello comune non per sintesi degli interessi dei Paesi, che poi finisce sempre per diventare la soluzione di un rapporto di forza».

A che punto è l’Europa in questo?
«Con il bazooka di Draghi si è avuto un primo strappo in questo senso. Anche la reazione al Covid è stata confortante, con il piano Next Generation Eu e il Sure, che hanno sostenuto e finanziato la ripresa post pandemia. Sui temi dell’ambiente però mi pare che la spinta verso una nuova Europa si sia smarrita e si sia fatto un passo indietro, anche perché la battaglia sta diventando puramente ideologica e politica, senza una strategia europea che punti invece a uno sviluppo equilibrato tra società, economia e ambiente. Temo prevarranno tatticismi e mercanteggiamenti anziché un compattarsi dietro a un progetto unico di sviluppo sostenibile».

Come Italia stiamo perdendo un’occasione con il Pnrr?
«Penso e spero che riusciremo a coglierla. Le polemiche sui ritardi e sulle difficoltà della messa a terra mi sembrano un po’ esagerate. La situazione non è fuori controllo. Il problema è che in Italia nessuno dirà mai che qualcosa sta funzionando bene».

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