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Silvio Berlusconi? "Per lui provavo amore": il vip che esce allo scoperto

Hoara Borselli
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Poche sono le persone ideologicamente libere in questo Paese e Pupi Avati è una di queste. Una libertà pagata cara sulla propria pelle.


Pupi Avati, lei è uno dei pochi registi che è riuscito a fare una strepitosa carriera pur non essendosi mai dichiarato di sinistra. Ci parli di lei, di cosa pensa della politica di oggi e come ha conciliato il suo lavoro con il suo essere non schierato.
«Voglio partire dicendo che l’Italia è un paese antidemocratico perché non ti permette di non appartenere. Io faccio parte di quel 45% delle persone astenute della politica, quelli che si trovano in imbarazzo, che vivono quelle grandi titubanze, che non riconoscono un’appartenenza politica. Quelli che vogliono preservarsi la possibilità di avere una propria idea che non trova espresso in questo antagonismo così netto. Le persone hanno la necessità di prodursi dei nemici, qualcuno contro cui battersi sennò la loro esistenza privata del nemico non ci sarebbe. Private del contradditorio ci sono un’infinità di persone che non esistono».

 


 

Questo cosa comporta?
«Tutto questo si va a riflettere in un qualità sempre più scadente, sempre meno ambiziosa del nostro vivere. Il livello di creatività del nostro paese è bassissimo. Lo vedo dalle scuole di recitazione dove insegno. Vedo i ragazzi che sono totalmente rassegnati a un piano B, hanno smesso di sognare».

Secondo lei da cosa dipende?
«Oggi i ragazzi si proteggono l’un l’altro nella loro mancanza di ambizione. Noi nel dopoguerra eravamo sospinti da grandi sogni e grandi ambizioni. I ragazzi oggi sono educati in famiglie che non li incoraggiano ad averle queste ambizioni».

Lei che padre è stato?
«Io sono stato un padre scadente. La mia professione esige una presenza costante. Sono riuscito a fare più di 50 film costringendo mia moglie a fare da moglie e da mamma, cose che probabilmente se lo facessi oggi verrei portato davanti ad un plotone di esecuzione, ma li ha cresciuti in un modo strepitoso».

Nel suo lavoro quanto ha pagato il non appartenere all’egemonia culturale di sinistra?
«Ho pagato cara la mancanza di identità netta, di un convincimento politico nei riguardi del mondo culturale di sinistra. C’è stato un momento nella storia di questo Paese, nel dopoguerra, in cui la sinistra si è attribuita la cultura lasciando alla Democrazia Cristiana altre priorità che avevano a che fare con il mondo degli affari. Da allora non è più cambiato. Io non mi riconosco in nessuno. Io sono io e rivendico la possibilità di avere delle idee che in certi momenti sono contrastanti o viceversa coincidenti. Di essere totalmente libero, di non essere prevedibile e questa cosa l’ho pagata caramente. Non essendo una persona riconducibile a quel mondo non ho fatto film funzionali a quel tipo di ideologia e proposta culturale. Culturalmente io non esisto».

Non avrà fatto film ideologici ma è innegabile che lei sia riconosciuto fra i migliori registi nel italiani e non solo.
«Non nego di aver lavorato più di tutti ma con delle salite non indifferenti attorno a me. Io e mio fratello abbiamo fatto un cinema molto poco di moda ma alternativo. Questa indipendenza ha avuto costo elevatissimo rispetto all’infinità di benefici cui certe persone hanno goduto».

Si era molto più rassicurati se appartenenti ad un contesto ideologico di sinistra?
«Sì, ma io non mi sono mai piegato e ho rovinato i miei figli perché li ho educati così (sorride). Mia moglie dice che li ho rovinati perché ho insegnato loro l’indipendenza intellettuale che è uno dei grandi privilegi dell’essere umano. Il permettersi sempre la possibilità di dire “non è esattamente così”».

Ha frequentato quel mondo culturale di sinistra a cui ha deciso di non appartenere?
«Quando da Bologna sono arrivato a Roma ho frequentato la terrazza romana dell’attrice e regista Laura Betti, quella di Moravia, di Siciliano di Bertolucci, Pasolini di cui ho scritto l’ultimo film. Non è che non li abbia conosciuti o incontrati, solo che ad un certo punto era talmente a rischio la mia identità, a rischio di essere plagiato, sedotto e influenzato che il giorno dopo ripetevo quello che avevo sentito dire».

Quindi cosa fece?
«Una sera ho capito che avevo bisogno di essere emarginato da quel contesto. Due secondo me sono gli elementi che preservano l’identità di una persona. Il primo l’emarginazione. E per essere emarginato è stato sufficiente che dicessi che mia madre era assessore della Dc di San Lazzaro per far sì che sulla quella terrazza non fossi più invitato. La seconda è l’onorabilità alla quale pervieni attraverso l’età».

Lei a 86 anni quindi direi che ci siamo.
«La vita ha una sua circolarità. Ad un certo punto inizia un periodo che nella cultura contadina si chiama “lo scollinamento”, un periodo dei ritorno quando non hai più il coraggio di pensare al futuro ma ti piace di più pensare al passato. Inizi il rientro. Il tuo fisico incomincia ad essere calcitrante su più fronti, tu cominci il disapprendimento che riesci a mascherare con la professionalità e diventi sempre più simile a quel bambino che sei stato tantissimi anni fa. Acquisisci la vulnerabilità. Perché i vecchi e i bambini sono vulnerabili. Sono meravigliosi per questo, piangono e ridono con niente, si commuovono con niente. Li ferisci con niente e sono gli unici a sentire il prossimo come simile».

Lei si sente molto vulnerabile adesso?
«Io da diversi anni sono entrato in questa stagione della vulnerabilità della quale vado fortemente orgoglioso nonostante sia segno di grande fragilità e debolezza, di grande sensibilità. Riesco a percepire il bello».

Di brutto cosa percepisce invece?
«Che c’è una forte carenza di ambizione intellettuale nel dibattito del paese. Tutto previsto e prevedibile. Si vola bassi, per schieramenti».

C’è un personaggio che l’ha particolarmente affascinato nella sua vita?
«Chi mi ha affascinato follemente è stato Silvio Berlusconi. La sua sfrontatezza, un qualcosa di unico. Quando lo vidi nel ’94, quando mi apparve per la prima volta, diceva delle cose così al di fuori del comune che pensai: “Finalmente qualcuno di diverso”. Poi nel corso della sua vita ci sono stati una serie di eventi che lo hanno zavorrato e ne hanno opacizzato l’immagine. Hanno cominciato a fargli i conti in tasca, è stato odiato tantissimo ma al contempo reso molto popolare. Io e tutta la mia famiglia ne siamo rimasti fortemente affascinati. Credo che Berlusconi non abbia avuto rivali. E sa perché? Perché percepiva l’essere umano. Lui mi ha incontrato 2 volte ed era come se parlasse con la persona che cercava da sempre, anche se mi aveva incontrato per caso e magari non sapeva nemmeno chi io fossi. Aveva questa abilità da grande seduttore che non hanno questi politici. Lei può solo immaginare le liti che facevo io alle cene, e parliamo della metà degli anni ’90, nella “Roma bene” difendendo Berlusconi contro tutti. Perché ne sono stato veramente invaghito, innamorato. Mi è parso un qualche cosa di così inedito, nuovo, moderno che posso tranquillamente dire che abbia rappresentato un’eccezione. Nessuno mai come lui».

 



Si è fatto molti nemici nella sua carriera?
«Non ho né nemici né avversari. Ho molte persone che non la pensano come me ma non sono avversari. Ho sempre cercato di mettere in campo il buonsenso. Rivendico il mio non essermi mai piegato a quel sistema che portava tutti a dire, ancora prima di iniziare un discorso: “Io sono di sinistra”. Come Margherita Hack che esordiva in tutte le interviste “io sono atea” ancora prima che le rivolgessero la domanda».

Lei che rapporto ha con la religione?
«Nei riguardi della fede ho un rapporto dialettico. Io voglio credere ma faccio una gran fatica. Sono credente affaticato dal fatto di esserlo».

È molto forte in lei il valore dell’identità, l’unicità della persona...
«Ognuno di noi dovrebbe avere una calligrafia propria. Mi spiego meglio. Io devo essere in grado di riconoscerti senza leggere il tuo nome. Leggo una cosa e devo sapere che l’hai scritta tu perché c’è quella cosa, quel particolare che ti rende riconoscibile senza che mi dici chi sei. L’identità è il punto di forza di ogni persona e l’identità è il suo talento».

Cosa pensa di Giorgia Meloni?
«La Meloni è una persona che mi ha commosso. Una ragazza così piccola che si è messa sulle spalle un paese così complicato e così inquietante. La sua forza e il suo coraggio sono stati per me commoventi. Io non lo avrei mai fatto. È anche una persona di grandissima civiltà».

 

 

Repubblica ha pubblicato una sua foto dandolo per candidato alla guida del Centro Sperimentale di Cinematografia.
«Io e Giancarlo Giannini - pubblicato da Repubblica con me- siamo due persone con alle spalle un pezzo di storia del cinema italiano. Le sembra rispettoso che si venga menzionati per ricoprire quell’incarico a nostra insaputa, o almeno a mia, perché come è stato scritto, saremo vicini a Giorgia Meloni e a Fratelli d’Italia? Qui il grande problema di questo paese: l’appartenenza che conta più della competenza. Io ricoprirei quell’incarico se tutta la politica all’unanimità, maggioranza e opposizione, riconoscesse il mio valore, la mia capacità, la mia storia. I ruoli si devono ottenere per riconosciute capacità, non per tessere di partito che fra l’altro io non ho».

In tutti questi anni c’è una cosa che avrebbe voluto vedere accadesse nel nostro paese e non è accaduta?
«L’ultimo sogno era vedere la Rai che obbedisce al suo mandato di servizio pubblico come 30-40 fa. Impegnata nella acculturazione del paese. Invece ci si preoccupa di mettere a sedere dietro le stesse scrivanie persone diverse ma non cambia nulla. Una terza rete priva di pubblicità, non al servizio degli inserzionisti ma totalmente culturale. Questo paese ne avrebbe veramente tanto bisogno. Non è accaduto, non accadrà. Rimarrà un sogno, da idealista quale sono».

 

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