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Israele, Vittorio Feltri picchia durissimo: "La differenza tra noi e gli islamici"

Hoara Borselli
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Ciao direttore, come stai, innanzitutto?
«Abbastanza male, tu come stai?».

Basterebbe questa risposta per capire che dall’altra parte del telefono c’è Vittorio Feltri. È in ospedale ma è sempre Feltri: ironico, brusco, assolutamente irriverente. Non cambia mai neanche ora chela salute gli sta rompendo i coglioni, come dice lui. E accetta subito di rispondere a qualche domanda.

Chiedo: in un tuo recente tweet hai scritto che aveva ragione da vendere Oriana Fallaci quando disse che il cancro dell’umanità è costituito dall’Islam. Perché allora i giornalisti hanno paura a dire “Terrorismo islamico” e preferiscono dire solo “terrorismo” ?
«Perché ormai nella nostra società, non solo in quella italiana, domina il cosiddetto “politicamente corretto”, che è sinonimo di conformismo. E tu sai meglio di me che il conformismo dilaga ed è contagioso come la peste. Io me ne sbatto del politicamente corretto e do alle cose il nome che ho imparato studiando l’italiano e il latino. Di tutto il resto me ne frego».

Tu eri molto amico della Fallaci.
«Praticamente Oriana è morta a casa mia».

I suoi articoli di più di 20 anni fa oggi suonano come profezie.
«Lei ha anticipato tutto. E la prendevano anche in giro. Aveva ragione come possiamo constatare anche da questi ultimi episodi che non sono destinati a restare isolati».

Perché nel mondo del giornalismo non c’è più il coraggio?
«Intanto perché i giornali sono ormai ridotti al lumicino, hanno perso tutto il loro smalto, ma soprattutto i lettori sono pochi, le aziende incassano poco e pagano male i giornalisti. A parte me, per fortuna. I giornalisti mal pagati sono i primi a piegarsi al conformismo».

In un altro tuo tweet hai detto che chi va contro il popolo ebraico va contro se stesso.
«Certo, perché gli ebrei hanno una mentalità occidentale. Anche se hanno una religione diversa, la loro è la religione da cui nasce il cristianesimo che poi ha influenzato tutto lo sviluppo umano. Quindi abbiamo la stessa mentalità. E questa mentalità non è certo quella degli islamici a cui invece piace lapidare le mogli per qualunque sciocchezza. Quelli sono dei pazzi completi, sono privi di educazione. Basta vedere come vivono».

A proposito, hai letto la notizia del giocatore Ronaldo che rischia 100 frustate per aver baciato una donna? È accusato di adulterio...
«Ho stimato Ronaldo come calciatore. Però una cosa gliela rimprovero- e quasi quasi penso che si meriti le frustate... (ride)- è quella di essersi trasferito in quei paesi...».

Direttore, ma se l’avessero fatta a te, quando eri giovane, una proposta del tipo ”ti diamo 100 miliardi per andare nei paesi arabi”, cosa avresti risposto?
«Gli avrei risposto di rotolarsi quei 100 miliardi ed infilarseli in quel posto».

Capisco. Vabbè, cambiamo discorso sennò il discorso diventa scabroso (rido io, stavolta...): tanti anni fa tu hai preso un giornale che era un giornale morto, L’Indipendente. E sei arrivato a vendere 100mila copie. Come hai fatto?
«120 mila per l’esattezza. Dunque, io lavoravo all’Europeo, lo dirigevo dopo aver passato la vita al Corriere, quindi la mia mentalità era quella del “quotidianista”. Feci molta fatica a fare il settimanale, dovetti cambiare mentalità, ma mi rimase la nostalgia del quotidiano. Quando mi proposero L’Indipendente io sapevo benissimo che era un giornale moribondo. Allora mi feci fare una fideiussione di 500 milioni di lire: se il giornale avesse chiuso io avrei intascato la fideiussione. Quando sono arrivato all’Indipendente il mio obiettivo era quello di prenderlo a calci per farlo morire definitivamente e riscuotere la fideiussione. Ho cominciato a prenderlo a calci ma quello invece di morire si è rinvigorito ed è arrivato a 45mila copie. A quel punto ho pensato che mi conveniva insistere, e così siamo arrivati a quei numeri che ti ho detto».

Che linea editoriale gli hai dato?
«La linea editoriale? Io in quel periodo ho sposato “mani pulite”, cioè l’inchiesta di Di Pietro e Borrelli contro la politica, per una ragione molto semplice: io cerco di aderire agli umori del pubblico. Non me ne frega nulla dell’ideologia, non me ne frega nulla della destra e della sinistra. Il mio dogma è questo: io do quello che vuole il lettore. Me lo ha trasmesso Montanelli, me l’ha insegnata lui questa lezione. Grazie al successo dell’Indipendente sono arrivato a spingere Berlusconi a chiedermi di dirigere il Giornale. Ho preso il giornale che vendeva 110mila copie: nel giro di un anno è arrivato a 250mila».

Ma allora perché hai deciso di lasciare il Giornale e di fondare Libero?
«Libero ho pensato di fondarlo per una sola ragione: il Giornale era di proprietà di Berlusconi, e secondo me non era credibile fino in fondo: pensavano tutti che fosse Berlusconi ad insufflarmi. Invece Berlusconi non mi ha mai fatto nemmeno una telefonata. Allora io ho pensato di fare un giornale che avesse una forte linea editoriale ma che nessuno potesse sospettare che fosse teleguidato da un suggeritore pagante. E così è stato. Ed è andata bene... Dirò che la botta più grossa, 30mila copie in più in un giorno, è stata quando il mio amico Paolo Mieli ha fatto sul Corriere un endorsement, dicendo che avrebbe votato per Prodi: mi ha regalato 30mila copie. Ma quello è culo. Io non mi do delle arie da fenomeno: so di essere assistito da San culo e spero che continui a proteggermi».

In ospedale San culo funziona?
«Ho una persona con me che interpreta la volontà di San culo: Melania Rizzoli, che mi assiste in modo commovente, mi sta vicino in maniera incredibile. È quell’amicizia vera, disinteressata».

Tu il Pci lo odiavi? (o magari invece di nascosto lo amavi?)
«Io l’ho sempre detestato perché credo che siano sbagliate le fondamenta su cui si poggia. Qualcuno mi dà del fascista, ma i fascisti mi stanno sul cazzo come i comunisti. Da ragazzo ero socialista perché ero nenniano. Allora c’era Nenni e io sono rimasto in quel partito poco, un paio d’anni, poi sono uscito e mi sono messo a fare il giornalista vero, alla Notte di Milano. Era un giornale fascistissimo, diretto da Nino Nutrizio, ma io non ho mai avuto nessuna antipatia per il direttore, anzi, lo ricordo ancora con gratitudine, sai perché?».

Racconta.
«Ancora prima di assumermi mi disse questa cosa: “Tu collabori da due anni con il Corriere di Bergamo e non ti hanno ancora assunto. Mi viene il sospetto che sei cretino”. Io ci rimasi malissimo, ma lui mi confermò che mi avrebbe messo alla prova per due mesi. Tornato a Bergamo, ricordo che scrissi un articolo che mi era piaciuto tantissimo. Aprii il giornale, il giorno dopo, e vidi che sulla pagina di Bergamo non c’era e mi volevo sparare. Poi mi accorsi che Nutrizio il mio articolo lo aveva messo in prima pagina, e lì ho provato un vero orgasmo. Mi assunse e mi disse: “Allora non sei un cretino!”».

C’è un articolo che hai scritto e di cui sei particolarmente orgoglioso?
«No, però rivendico una cosa della mia carriera giornalistica: la campagna che feci a favore di Enzo Tortora, e l’ho vinta.
Questo mi fa capire che il nostro mestiere a volte può essere utile...».

Che rapporti avevi con Montanelli?
«Buonissimi, eravamo amici. Andavamo spesso in una trattoria di via Fatebenefratelli e mi ricordo un particolare che fa ridere: teneva il fiasco del vino sotto il tavolo come mio nonno. Perché usava così: era padrone di casa chi teneva il fiasco e mesceva agli altri».

E con Piero Ottone, che fu il tuo direttore al Corriere della Sera dal 1972 al 1977, che rapporti avevi?
«Buoni. Anche se lui me l’ha fatta grossa. Appena arrivato al Corriere, il primo giorno, mi ha fatto scrivere un pezzo in prima pagina e già questo mi faceva tremare le gambe. Allora io scrissi questo articolo e lo consegnai al caporedattore. Il caporedattore mi disse che andava benissimo. Passano un paio di ore e viene il fattorino che mi avverte: ti vuole il direttore. Vado da lui e lo trovo con i fogli del mio articolo in mano. Attimo di silenzio e poi mi dice: “Il pezzo va benissimo...
peccato per quel congiuntivo”».

E tu come hai reagito?
«Io me la sono fatta sotto e gli ho detto: “Vado a sistemarlo subito”. Però io il congiuntivo sbagliato non lo trovavo.
Passano un po’ di anni e mi mandano a fare un’intervista a lui che era diventato nel frattempo presidente della Mondadori. Dopo l’intervista io gli ricordo la storia del congiuntivo. Lui sorride e mi spiega: era una cosa che facevo con tutti i giornalisti nuovi, così si cagavano sotto e stavano più attenti... È stato un grande direttore».

Craxi? Tu l’hai massacrato.
«Mi sono pentito perché poi ho conosciuto bene Craxi, ho visto che viveva modestamente. Lo ho conosciuto quando era in esilio ad Hammamet, tutte le sere verso le 11 mi telefonava e mi chiedeva dei particolari sull’andamento italiano. Glieli davo con estrema onestà. Lo andai a trovare all’hotel Raphael e mi resi conto che viveva quasi come un poveraccio e ho capito che non aveva rubato niente. Non lo attaccai mai più!».

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