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Festa dei Santi e dei morti, altroché zombie: ci raccontano la gioia della vita

Pietrangelo Buttafuoco
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Il primo di novembre raduna i Santi del calendario e prepara la notte in cui i Morti, venuti alle nostre finestre, fanno capolino. Gli uni e gli altri, infatti - i Santi e i Morti, tutti- più che gli altari e i camposanti abitano le nuvole. Sta per arrivare il 2 di novembre, è appunto la Memoria dei Defunti, ’a Livella - il capolavoro poetico di Totò - è la nostra più immediata magia, e una notizia bisogna pur darla: i morti mangiano. Prendono biscotti e latte. Non c’è sepolcro tra le civiltà mediterranee che non abbia tavola imbandita.

Alla Fiera dei morti, a Catania - nella festa che buca il crepuscolo - si trovano tibie e teschi di zucchero. Sono i biscotti impastati di glassa e torrone in forma di ossa.
Nei luoghi di Ade - e di Orfeo che riporta Euridice dal regno dei morti l’aldilà è decisamente famiglia. 

Il mondo dietro il mondo è innanzitutto un banchetto, è uno stare a tavola per restare a casa, un continuo intimo colloquio con quelle teste che la scienza chiama crani e che il popolo, invece, riconosce come capuzzelle. Sono quelle accatastate nell’Ottocento, quelle delle «schiere affollatissime delle anime purganti» - per come si legge ne L’incantevole Sirena, il libro perfetto di Francesco Palmieri- tutte teste «in attesa della redenzione celeste che presto o poi arriva». E sono anche quelle trasfigurate in zucche, le stesse che al Nord nella vena viva dei celti - ritorna sotto forma di lampada, perfino, cavandone via quel che basta di scorza per raffigurarvi gli occhi, il naso e il ghigno.

 

 

Anime comunque pezzentelle con la capa persa. Come quella di don Gennaro – ’o puveriello scupatore – allocato accanto alla tomba gentilizia del nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno, ardimentoso eroe di mille imprese, ricomposto nel sepolcro con tanto di tuba, monocolo e mantello e perciò infastidito di star vicino allo spazzino cui intima di trovarsi un altro fosso.

Anime pezzentelle che però, rinfrescate dal ricordo, da ferventi omaggi e dal riavvio dei lumini trovano la strada di casa per raccontarsi ai bambini. Del loro peregrinare, i morti, ne fanno festa e dunque fiera. Acchiappano di tutto dalle bancarelle, soprattutto pistole e fulminanti che portano ai nipoti. I morti, infatti, sparano e portano allegria.

Ma i morti fanno trovare anche soldi. Viziano i bambini e quando qualche piccolino se ne resta papero papero, con l’occhio vago, si sente interpellare: «Ti portarono qui i morticini?».
I morti, infatti, non sono mortacci. Sono i veri padroni dei giorni e tornano che non hanno neppure bisogno delle porte socchiuse per entrare. Attraversano le pareti e passano il tempo loro concesso, quello di una notte, a guardarsi intorno nelle case addormentate. Si avvicinano a tutti e a ciascuno affidano una carezza.

 

 

I Santi - tutti, quelli di oggi- se ne tornano in cielo. I morti, invece, stanno vicino a noi. I morti, poi, scherzano. Eccone uno: braccia conserte sotto al mento a modo di tibia incrociate. L’occhio sbarrato come a segnalare le orbite svuotate di bulbi e pupille da tempo inghiottite dai vermi. E un sorriso bieco, infine – il vacuo ghigno del Nulla – per rappresentare con la propria capa la morte in persona.

Ecco, appunto. Come faceva Totò, facendo ridere i vivi. Ma se solo potessimo vederli quei morti conosceremmo la verità del loro silenzio proprio invisibile. È il loro modo di sorriderci. Mangiano. E lasciano le briciole. Tutte di lu ce. 

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