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Alfonso Pedatzur Arbib, il rabbino capo di Milano: "Gli ebrei hanno paura, gli studenti israeliani si sentono rifiutati"

Klaus Davi
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A Milano gli ebrei sono tornati ad avere paura. Il momento che sta attraversando la Comunità milanese è tra i più bui del dopoguerra e non solo per ragioni di carattere geo-politico, ma soprattutto per il ripresentarsi di incubi e fantasmi che sembravano essere ormai stati archiviati per sempre.

Incontriamo il rabbino a capo della Comunità ebraica di Milano Alfonso Pedatzur Arbib, proprio nel palazzo dove si trova la sinagoga centrale, un tempio esclusivo dell'ebraismo milanese. Ora accanto a questo palazzo, che poi è anche un'istituzione per l'intera città di Milano, si affiancano una quindicina di luoghi di culto spesso venuti alla luce per effetto delle onde migratorie che hanno attratto quei correligionari fuggiti dall'Africa del nord, dalla Persia e dal Libano verso le nostre città.

Il rabbino Arbib ha ben presente la gravità della situazione e la fase per certi aspetti totalmente irrazionale che la Comunità ebraica sta vivendo. Ma non perde mai la lucidità nelle sue analisi nel corso dell'intervista nei suoi confronti da parte del giornalista e massmediologo Klaus Davi:

La paura c'è ancora e soprattutto non si pensava che si potesse tornare a questo clima di terrore per gli ebrei. Un suo commento?
«Io dico sempre che ci siamo illusi. Lo ripeto perché probabilmente i segnali potevano esserci e forse abbiamo scelto di non vederli. Purtroppo anche lo Stato di Israele ha scelto di non vederli e si è trovato impreparato davanti a tutto quello che è accaduto. Non ci siamo resi conto della rinascita dell'antisemitismo, o meglio, a dire il vero io ne parlo ogni anno a ridosso del Giorno della Memoria, ma molti se ne sono resi conto solo ora. L'antisemitismo non è mai morto e continua a svilupparsi e oggi c'è un antisemitismo nuovo, diverso da quelli precedenti. Quest'ultimo è di matrice islamica, è un antisemitismo pesante e lo possiamo vedere in primis dagli attentati che ci sono stati nelle Università. Per questo dico che i segnali c'erano eccome e che quello che sta succedendo oggi è estremamente spaventoso e preoccupante. Siamo davanti a un vero e proprio fallimento educativo».

 

 

Hamas fa molta più presa sui giovani. Forse la forza comunicativa di queste organizzazioni è stata sottovalutata? E forse le Comunità ebraiche avrebbero dovuto aprirsi di più?
«Io non credo che sia questo il problema perché le Comunità si sono aperte molto. Quello che è mancato forse riguarda altri elementi: in primis ci siamo illusi che il ricordo della Shoah potesse da solo risolvere il problema dell'antisemitismo. Il Giorno della Memoria è un appuntamento imprescindibile e fondamentale per non dimenticare. Concentrare tutto unicamente sulla Shoah però storicizza molto ed è una cosa che mi preoccupa perché crea una sorta di alibi. L'ho detto anche a un ex Consigliere della Comunità ebraica di Roma che ho sentito qualche giorno fa e che ha fatto decine di viaggi con le scuole ad Auschwitz. Lei mi ha riferito che dopo questi viaggi si è ritrovata davanti persone che erano rimaste totalmente sconvolte dall'esperienza vissuta e che le hanno inviato diluvi di lettere nelle settimane successive al viaggio. Dopo di che, quelle stesse persone oggi credono che Israele sia nazista».

Purtroppo però l'antisemitismo sta dilagando...
«Sì, confermo. E sta riemergendo in modo preoccupante anche un antisemitismo di natura religiosa. Faccio alcuni esempi: da alcuni esponenti della Chiesa cattolica sta cominciando a circolare il concetto di "vendetta". E recentemente ho sentito anche alcuni giornalisti dire che "la reazione israeliana" o "la vendetta israeliana" era giustificata all’inizio ma ora non lo è più. Ma non possiamo assolutamente parlare di vendetta, quanto compiuto da Israele è semplicemente un tentativo di difesa. Ma perché allora sta riemergendo questo termine "vendetta"? Si tratta in realtà di un concetto antico: fa riferimento a una delle contrapposizioni classiche del cristianesimo rispetto all'ebraismo. È la rappresentazione della contrapposizione tra il Dio della vendetta ebraico e il Dio dell'amore cristiano. Questa idea ha origini molto arcaiche e viene oggi recuperata. Dobbiamo dunque stare attenti a non sottovalutare le radici dell'antisemitismo di tipo religioso che continuano a esserci in alcune società».

Come ha vissuto le reazioni in Italia?
«La delusione più grande l’abbiamo ricevuta dal mondo cattolico che ha avuto una reazione molto tiepida e subito dopo molto forte per quanto riguarda i palestinesi. Io sono andato a vedermi la reazione della CEI che l'8 ottobre ha comunicato gli avvenimenti del Medio Oriente con queste parole: “L’attacco contro Israele e la reazione che ne è conseguita…”. In realtà l’8 ottobre non c'era stata ancora nessuna reazione, ma la CEI ha voluto immediatamente comunicare mettendo insieme i due elementi, l'attacco di Hamas e la reazione di Israele. Dal primo momento la linea che hanno seguito è stata questa, hanno unito le due cose come se fosse normale e a mio modo di vedere questo è stato molto pesante. Il mondo cattolico ha un legame profondo con la Terra Santa, ma questa reazione è stata molto deludente perché non abbiamo sentito la vicinanza di un mondo con cui siamo in rapporti molto stretti».

Un suo giudizio sul comportamento del Governo italiano?
«Il governo italiano è stato molto netto, chiaro e coerente nei confronti del popolo di Israele, questo va detto perché per noi è molto importante. Come del resto lo sono stati altri governi europei. Aggiungo una cosa da non sottovalutare: come lo è stato il governo italiano anche quello tedesco secondo me è stato straordinario. Noi italiani abbiamo bisogno proprio di queste cose. Ovviamente alcuni hanno visto questa vicinanza tedesca in maniera più negativa, è una tendenza naturale, ma io vorrei sottolineare le molte manifestazioni di amicizia che ci sono arrivate e che non vanno mai sottovalutate».

 

 

Il Rabbino è una figura a 360°, molto importante e molto radicata nella Comunità. E ogni momento di tensione e di ansia come quello che si sta vivendo ora diventa anche qualcosa in più. La domanda per lei è: ha dovuto rassicurare la Comunità presente in Italia?
«Sì, anche se in molti casi non si tratta di rassicurare ma più che altro di condividere la situazione e il dolore perché il dolore va anche condiviso. La prima cosa che ho fatto è stata una riunione di preghiera all’interno della Comunità. L'abbiamo organizzata a scuola ed è venuta tanta gente a cui non ho voluto fare discorsi particolari. È stata una semplice riunione, ho detto due parole e poi abbiamo fatto una preghiera tutti insieme. Penso che più di ogni altra cosa in quel momento fosse necessario stare insieme, condividere un momento difficile. Successivamente abbiamo organizzato altri momenti, tra cui una preghiera più aperta alla collettività qui al tempio centrale e anche in questo caso sono venute tantissime persone. La Comunità è molto unita in questo momento e ovviamente siamo con lo stesso pensiero fisso. Tutti infatti hanno parenti in Israele e la maggior parte ha anche delle persone al fronte. Inoltre molti ebrei sono partiti per andare a lavorare in Israele: in questo momento una delle conseguenze non conosciute della guerra è che nel sud del Paese non c'è più nessuno che lavora la terra o che faccia la raccolta dei pomodori perché non ci sono gli israeliani e nemmeno i lavoratori stranieri. Dunque in queste zone ci sono molte persone che sono partite dall'Italia e da altri paesi soltanto per andare a raccogliere la frutta e i pomodori esprimendo tutta la propria solidarietà».

Ci sono stati episodi di minacce?
«Sì, ci sono stati: uno è uscito anche sui giornali, segnalo poi le svastiche disegnate sui muri delle case e studi professionali e anche episodi di alcuni ebrei che sono stati insultati per strada. E poi c'è un'altra situazione molto difficile: gli studenti israeliani nelle varie Università che stanno sentendo un'atmosfera di rifiuto. Non parlo di episodi particolari, ma sono a conoscenza di un clima molto pesante che i ragazzi sono costretti a sopportare nei vari atenei di tutto il mondo».

Tutto questo lei lo ha già vissuto, vero?
«Sì, in primis quando a 9 anni dovetti lasciare la Libia, il mio paese nativo, dopo lo scoppio della Guerra dei sei giorni. Per certi aspetti quindi quella attuale per me non è una situazione nuova. Precisato questo, posso dire che un'ondata così forte e così pesante non l'ho mai vissuta. Quello che è successo il 7 ottobre è stato traumatizzante per tutti noi e non è paragonabile a situazioni precedenti. Chiaramente noi ebrei siamo stati espulsi da numerosi Paesi arabi e non è stato uno scherzetto. Siamo andati via con un paio di valigie e 20 sterline ed è stato sicuramente traumatizzante. Però la violenza allucinante, gli stupri e tutto quello che sta accadendo in questi giorni è qualcosa che non abbiamo vissuto. Ed è la cosa più difficile in assoluto da far capire alle persone che stanno fuori dalla Comunità: quanto gli ultimi eventi siano stati scioccanti per tutti noi. E infatti quello che un po' ci sta impressionando è che non sia altrettanto scioccante per gli altri». 

Klaus Davi: Cosa impariamo da quello che sta succedendo e cosa dovremo fare
quando finalmente sarà tutto finito? 

«Tante cose, la prima è tenere sempre gli occhi aperti, la seconda è che non si va da nessuna parte se non si combatte l'odio. Oggi esiste un insegnamento dell'odio che va avanti da tantissimo tempo e se non riusciamo a combatterlo non andremo mai da nessuna parte». 

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