Cerca
Cerca
+

Gianni Riotta e Paolo Gentiloni alla Festa dell'Unità scoprono gli elettori e si prendono i fischi

Paolo Gentiloni

Corrado Ocone
  • a
  • a
  • a

Ci inchiniamo. Ci vuole davvero dell’arte per farsi fischiare e contestare ad una festa dai militanti del proprio partito, dal proprio pubblico. E venire persino a diverbio con loro, in un botta e risposta fatto di grida, urla, minacce, tanto forti da far intervenire le forze di sicurezza presenti. L’impresa è riuscita a due pezzi da novanta del Pd, un dirigente che è stato anche capo di governo e commissario europeo, e un giornalista ed ex direttore di vaglia diventato intellettuale di riferimento. È successo a Reggio Emilia, nel cuore di quella che era un tempo (e in parte ancora lo è) l’ “Emilia Rossa”, in uno dei dibattiti dell’un tempo gloriosa Festa Nazionale dell’Unità.

I protagonisti della storica e surreale vicenda, Paolo Gentiloni e Gianni Riotta, erano stati chiamati a discutere nientemeno che del futuro dell’Europa, ma il discorso si è subito allargato alla Guerra in Ucraina e al già di per sé minato tema del “campo largo” o “larghissimo”. Le loro parole, rigorosamente senza contraltare, hanno scatenato il putiferio. Gentiloni ha cercato di argomentare le ragioni che stanno spingendo gli occidentali a riempire di armi Zelenski e a non volere una pace che suonerebbe oggi come una resa o un “piegare la testa”. Un argomento abbastanza ostico per una base in cui forse sopravvive ancora il mito della Madre Russia e in cui soprattutto alberga sempre forte il sentimento anti-occidentale.

 

Nel mentre il flemmatico conte snocciolava con esasperante lentezza il suo verbo, dal pubblico si sono levate voci di dissenso che, se non lo hanno scomposto più di tanto (noblesse oblige), hanno fatto invece infuriare, anzi direi sbroccare, il moderatore (in questo caso immoderato oltre ogni immaginazione). In un crescendo di improperi, alzatosi e impugnato il microfono, Riotta prima ha definito scortesi i contestatori e poi li ha minacciati e ha chiesto agli organizzatori di cacciarli via come, secondo lui, avrebbero fatto senza pensarci troppo nelle vecchie Feste dell’Unità. Il che deve avere ancora di più irritato i compagni emiliani che si son sentiti messi alla porta a casa loro e per di più da chi è dopo tutto considerato un semplice “compagno di viaggio”, un estraneo.

Come se non bastasse, poco dopo, Gentiloni si è preso una seconda e abbondante razione di fischi. Il tema era questa volta il “campo largo”, un’entità quasi metafisica che al popolo delle salamelle deve fare suppergiù l’effetto dell’araba fenice: “che ci sia ognun lo dice, ove sia nessun lo sa”. Al solo nominare Italia Viva del “rinnegato” Renzi come necessaria ala destra riformista di un’alleanza che allo stato attuale è a dir poco sbilanciata a sinistra, il pubblico è insorto manifestando con ululati e schiamazzi la sua contrarietà. Facciamoci certamente allora le risate d’obbligo per questo tafazzismo surreale a cui il Pd ci ha in verità da un bel po’ abituati: la storia, sappiamo, anche quella delle Feste dell’Unità, si ripresenta sempre come farsa.

 

Poniamoci però anche qualche domanda. Come possono Gentiloni e Riotta, certamente non gli ultimi arrivati, non aver calcolato le reazioni di un pubblico che dovrebbero ben conoscere? Come fanno a non conoscere i sentimenti profondi della base del partito, meravigliandosi poi della sua reazione? Come fanno a pensare che sia possibile parlare al rude popolo dei lavoratori così come si parla a un consesso di alti burocrati bruxellesi o ai frequentatori fighetti di una terrazza romana? Prima che quella fisica, esaltata da un palco che si stagliava alto sul pubblico anonimo dei compagni, la distanza fra Gentiloni-Riotta e i rumorosi spettatori della loro performance è apparsa ideale, culturale, persino antropologica. Tanto più marcata quanto più i due son sembrati non rendersene nemmeno conto. Le loro parole hanno fatto il paio con quelle della Schlein quando discetta di armocromia, intersezionalità, economia circolare, inclusività, e tutte le ben conosciute amenità del repertorio woke. I lavoratori e la gente semplice ascolta, non capisce, protesta. Oppure, come accade sempre più spesso, si butta a destra, per dirla con il principe de Curtis che ne sapeva certamente più di lorsignori (che non sono più quelli di Fortebraccio ma i compagni se li ritrovano a casa propria e per di più con la pretesa di comandarvi).

Dai blog