Sebastião Salgado, l'economista che si fece occhio del pianeta

Se ne va a 81 anni il fotografo che, partito dalla statistica, ha documentato bellezze e fragilità dell’Amazzonia e del mondo
di Maurizio Stefaninisabato 24 maggio 2025
Sebastião Salgado, l'economista che si fece occhio del pianeta
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«L'occhio dell’Amazzonia» era stato definito, e all’Amazzonia era stata intitolata una delle sue mostre più famose. Ma Sebastião Ribeiro Salgado Júnior, leggenda della fotografia documentaria e del fotogiornalismo contemporaneo, nel suo percorso di vita e professionale era stato in più di 130 Paesi a documentare le condizioni naturali più estreme. Dal freddo pungente della Siberia e dell'Antartide, con temperature a 50 gradi sotto zero, a luoghi inospitali per ogni forma di vita, come l'ardente deserto del Kuwait, dove aveva perso gran parte dell'udito a causa delle esplosioni dei pozzi petroliferi incendiati dopo la Guerra del Golfo.

Nato a Aimorés, cittadina di poco più di 20mila abitanti nello Stato brasiliano di Minas Gerais, aveva fatto 81 anni l’8 febbraio, presentando la sua mostra sull’Amazzonia a Città del Messico e spiegando che non aveva affatto intenzione di smettere di lavorare. «Un fotografo non va mai in pensione», aveva detto. La sua morte, avvenuta ieri a Parigi, è stata «a causa di complicazioni dovute alla malaria», come hanno riferito il Terra Institute, fondato dal creatore brasiliano e da sua moglie Lélia Wanick, e l'Accademia francese di belle arti. Un male che evidentemente aveva contratto dopo essersi recato in qualche ambiente estremo.

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«Spero che la persona che entra in una delle mie mostre non sia la stessa quando ne esce», diceva. Più volte candidato a fotografo dell’anno, aveva ricevuto una settantina di premi e sei onorificenze, e il documentario sulle sue opere Il sale della terra, girato da suo figlio Juliano Ribeiro Salgado con Wim Wenders, aveva ottenuto una candidatura agli Oscar del 2015. Tra i suoi soggetti preferiti i rifugiati e sfollati a causa della fame e della guerra, e le dure condizioni di vita di agricoltori e cercatori d'oro. Ma il bello è che non aveva studiato da artista o da giornalista, ma da economista e statistico. In missione in Africa, però, ormai trentenne fu folgorato da un’altra vocazione, e nel 1973 realizzò un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da un altro sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa.

Nel 1974 entrò nell'agenzia Sygma, dove documentò la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e in Mozambico. Nel 1975 entrò a far parte dell'agenzia Gamma; nel 1979 passò alla celebre cooperativa di fotografi Magnum Photos; nel 1994 lasciò la Magnum per creare, insieme alla moglie, la Amazonas Images. Intanto, tra 1980 ne 1986 aveva girato per le campagne dell’America Latina, scattando le foto poi finite nel volume Other Americas. Dopo si dedicò per altri sei anni ai settori di base della produzione, da cui il libro del 1993 La mano dell’uomo: 400 pagine tradotte in sette lingue e accompagnate da una mostra che ha girato per oltre sessanta tra musei e luoghi espositivi.

Nel 2013 fece un reportage in appoggio a Survival International per salvare gli Awá del Brasile, presentati come il popolo indigeno più minacciato del mondo. Un’altra delle sue raccolte più famose era quella sui cercatori d’oro che scavavano nel fango della Sierra Pelada. Il tutto in stile tradizionale: foto in bianco e nero sbiancate con un pennello per ridurre le ombre troppo intense, e una fotocamera da 35 mm. All’inizio Leica; poi una Pentax 645, per realizzare negativi più grandi.
E dopo l’11 settembre 2001 passò a una Canon 1Ds Mark III, con schede digitali non a rischio di essere danneggiate dai rilevatori a raggi X delle perquisizioni aeroportuali. Ne venne la mostra del 2013 Genesi, in cui dopo anni passati a documentare la sofferenza umana decise dii concentrarsi su ciò che resta intatto, sulla bellezza del mondo naturale, fotografando territori vergini, comunità indigene e paesaggi sfuggiti all’impronta distruttiva dell'uomo.

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Dopo la documentazione era passato al ripristino, fondando appunto il citato Terra Institute per finanziare riforestazione di oltre 600 ettari di foresta pluviale atlantica nel suo Brasile, con oltre due milioni di alberi piantati, decine di specie animali in via di ripresa e una fonte d'acqua sgorgata di nuovo dopo annidi siccità. Tre anni fa Salgado aveva completato il suo ultimo grande progetto, dedicato all'Amazzonia. Un ritratto monumentale della foresta tropicale più grande del mondo, attraverso 200 fotografie in bianco e nero.

«Si diceva che facessi estetica della miseria. Stupidaggini! Fotografo il mio mondo», è una frase con cui si presentava. Ma spiegava anche che la fotografia non è una cosa che possono fare tutti. Da insegnante aveva scoperto che su una trentina di studenti solo due o tre mostravano le qualità per praticare quella disciplina. E diceva anche che gli studi di economia e statistica lo avevano reso un fotografo migliore, spiegando che la mera tecnica non basta se non si riesce a capire il mondo.

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