Gianni Alemanno ieri è arrivato al 223esimo giorno di carcere. Ventiquattro ore prima, l’ex sindaco di Roma ha diffuso il suo 18esimo “diario di cella”. Un atto d’accusa sulle cattive condizioni sanitarie nelle quali si trovano i detenuti ristretti - come lui - nel carcere romano di Rebibbia. «La politica è andata in ferie, abbandonando le persone detenute come si lasciano per strada gli animali domestici che danno fastidio», scrive Alemanno sui social. Nel “diario”, finora diffuso ogni 15 giorni e pubblicato anche dal quotidiano giuridico on line Il Dubbio, l’ex ministro denuncia l’assenza di assistenza sanitaria nei penitenziari, dove i detenuti sono lasciati «morire nelle loro celle».
Un grido di dolore che ieri è stato colto dal presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, che si è recato in visita nel complesso di Rebibbia dove ha incontrato, oltre ad Alemanno, altri rappresentanti della popolazione carceraria «per ascoltare direttamente criticità e proposte. Il diritto alla salute non si sospende con la libertà personale. Gli incontri di oggi rafforzano la nostra determinazione a superare le criticità e a dare risposte concrete».
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Alemanno fa gli esempi di alcuni compagni di cella anziani, in condizioni critiche, lasciati senza cura e impossibilitati a usufruire della detenzione domiciliare a causa dei dinieghi dei magistrati di sorveglianza. Emblematico il caso di Giuseppe C., che «gira il Reparto tenendosi con la mano l’ernia inguinale espulsa, un malloppo grande quasi quanto un pugno, che non viene operata». E che dire di Francesco R., che nonostante una prognosi che certifica il suo essere «a rischio vita» si è visto rinviare per «cinque, dico cinque volte», la visita propedeutica per la donazione del rene da parte della moglie, necessaria per iniziare la dialisi? E fortuna, ironizza Alemanno, che la situazione del “braccio” in cui si trova lui - il Braccio G8, «il reparto bene dei carceri laziali» al quale appartiene anche Fabio Falbo, che scrive con lui il Diario - è migliore degli altri: «Vi lascio immaginare cosa troveremmo se andassimo negli altri reparti di Rebibbia, o a Regina Coeli, che in confronto sono gironi danteschi».
Le parole di Alemanno arrivano nel mezzo della polemica, sulle condizioni negli istituti di pena, tra i Garanti territoriali delle persone detenute e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Ieri i primi hanno criticato ancora la posizione del Guardasigilli sul numero dei suicidi nelle prigioni. Come è noto, Nordio ha comunque fatto notare come il dato sia «sotto il livello ereditato dal precedente governo nel 2022». «Esternazioni di una gravità inaudita», attacca il coordinamento della conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, che in una nota ricorda «le gravi carenze del sistema» dal punto di vista delle strutture, della carenza del personale, del sovraffollamento (al 31 luglio a fronte di una capienza di 51.300 posti, erano presenti nelle carceri italiane 62.569 ristretti) e, appunto, dell’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie. «Ogni morte in - e di - carcere è un fallimento dello Stato». A questo proposito, ieri pomeriggio è arrivata la notizia della morte, in ospedale, del 17enne recluso tunisino tre giorni dopo avere cercato di impiccarsi coi jeans nel carcere minorile di Treviso.
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Una notizia tragica, come tutte le altre morti nei penitenziari, che tuttavia, secondo il primo sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, non deve essere strumentalizzata. «Può piacere o non piacere, ma la comunicazione alla stampa del ministro della Giustizia sul numero dei suicidi altro non è che la rispondenza dei dati sulla serie storica del numero dei detenuti che si sono tolti la vita durante la detenzione. È esattamente così come è stato rappresentato». Non solo: anche rispetto allo scorso anno, conferma il Garante nazionale dei detenuti, c’è stato un’inversione di tendenza. Rispetto ai 58 decessi per suicidio registrati al 31 luglio 2024, si è passati ai 46 allo stesso periodo di quest’anno.