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Hamas, il diario di un'ebrea italiana nei luoghi dell'orrore

Il racconto di Dalia Gubbay e quel doloroso percorso verso il "ritorno a casa": dalla gioia di incontrare i sopravvissuti fino alla visita ai centri di riabilitazione per soldati
di Dalia Gubbaygiovedì 30 ottobre 2025
Hamas, il diario di un'ebrea italiana nei luoghi dell'orrore

9' di lettura

Sabato 18 ottobre Ore 22
Domani parto, torno in Israele dopo sei mesi, troppi, è la mia nona volta dal 7 ottobre, non posso fare altrimenti che respirare l’aria del mio paese, sentirne la lingua, stare in mezzo alla gente vedere che è tutto a posto, che ci siamo ancora. Questa volta è diversa, gli ostaggi vivi, sono rientrati a casa.Mi chiedo se ci saranno ancora quelle foto strazianti che ti aspettavano a Ben Gurion, probabilmente solo quelle di chi non è tornato ancora. Io lo so che non va tutto bene, so che le ferite di questo popolo sono profonde e insanabili, ma so anche che ce la faranno. Andrò di nuovo in un kibbutz, al Nova festival, al cimitero delle macchine, andrò nella piazza degli ostaggi dove ho degli affetti profondi. Finirò la settimana con un matrimonio, perché così è per gli ebrei, gioia e dolore, sempre.

Domenica 19 ottobre Ore 23.30
È stato un viaggio lungo e stancante, non stavo bene. In aereo volano anche Nadav e Michal, li abbiamo appena ospitati a Milano, li guardo e mi dico che sono i nostri nuovi sopravvissuti e come tale provo per loro un rispetto e una tenerezza infinite. Ho detto loro che incontrarli mi ha cambiato la vita e che contiamo su diloro eloro su di noi per sempre e così Israele non soccomberà mai. Per sconfiggere i loro demoni avranno bisogno di tempo. All’aeroporto hanno tolto le foto degli ostaggi, sono rimasti i tredici morti. Si aspettano i corpi. Domani andremo al Sud.

Lunedì 20 ottobre Ore 24
Oggi abbiamo incominciato con l’ospedale Soroca, eccellenza nel Sud del paese. Bombardato dall’Iran a giugno, interi padiglioni distrutti, dopo quattro ore ha riaperto. Nei viali alberati passeggiano medici e pazienti arabi ma di questo non parlerà mai nessuno. Proseguiamo. Al cimitero delle macchine bruciate, che più di ogni altro luogo ci riporta ad Auschwitz, vedo l’ambulanza dove è morta liquefatta Shani Gabbai, figlia di Michal. E poi ecco Nir Oz kibbutz, tra i più colpiti, quello dei Bibas. Lì ci aspetta Gadi Moses che ha ottant’anni e che dopo 482 giorni di prigionia era quello uscito con un sorriso beffardo sul volto, nessuno lo ha dimenticato. Un uomo bellissimo e fiero, un uomo che parla di speranza di futuro di ricostruzione, l’odio non può costruire nulla ci dice. Gli hanno ucciso la moglie, distrutto la sua comunità, lo abbracciamo tutti, mi ricorda Sami Modiano. Proseguiamo per il Nova festival, ogni volta le installazioni in memoria aumentano. Una stupenda ragazza di 25anni ci racconta il suo calvario, ma ora sta meglio, si sposerà a breve, i gemelli Berman cari amici di cui ho conosciuto il fratello sono salvi. Io però non ce la faccio a perdonare, a non odiare. Finiamo in piazza degli ostaggi; è un po’ una casa per me, ci ho passato così tanto tempo, ho parlato con così tante persone, è la prima volta dal rilascio degli ultimi venti, bramati, ostaggi. Verrò qui sabato sera.

Martedì 21 ottobre Ore 23
Oggi la città santa, Gerusalemme. Ci aspetta il presidente, sobria eleganza, il passaporto. Sta per atterrare Vance. Speriamo di arrivare in tempo e che non si dimentichi di noi. Ci sono qui anche Wittcoff e Kushner; la tregua è in bilico non si può perdere tempo. Il Presidente è affabile, contento di averci lì, preoccupato per l’antisemitismo in Italia, fa un grande elogio della Meloni e sono fiera, una volta tanto, di essere italiana. Poi visitiamo il Mont Herzl, le tombe di tutti i Presidenti, dei primi ministri, mi fermo solo davanti a quella di Golda Meir, sopraffatta dalla storia che ho davanti. Passiamo sotto al Muro del pianto, dove si vedono gli scavi e i resti del primo tempio, da togliere il fiato. La preghiera al muro pochi minuti, più intensi che mai. Ci dirigiamo poi in un Moshav, un centro di riabilitazione per i soldati; è un ranch, un posto da favola, un posto fuori dal tempo. Due di loro ci raccontano la storia di un trauma soffocante, nell’andare in una guerra tanto lunga, tornare a casa e continuare questo switch devastante e non trovare più un senso, un posto nella propria vita, nella propria famiglia, nel mondo. Abbracciare la propria figlia e non sentire niente. Dicono di stare meglio, ma a noi paiono ancora in un trauma profondo. Il 7 ottobre ha distrutto psicologicamente questa nazione, ha distrutto generazioni, ma loro stanno rinascendo.

Mercoledì 22 ottobre Ore 22.30
Non ero mai stata al Nord. Ricordo nel febbraio del ‘24 le famiglie sfollate che dormivano in un albergo a Gerusalemme, erano dislocate un po’ ovunque. Siamo andati a Haifa, abbiamo incontrato il sindaco, un uomo incredibile; alle ultime elezioni è stato votato dal 92% degli arabi. Qui convivono in armonia, insieme a ebrei e cattolici. Lui porta loro il cibo dopo il Ramadan, e vuole introdurre l’arabo nelle scuole; crede profondamente nell’integrazione. Soffre anche lui però; è nonno e sa che i suoi nipotini saranno chiamati a combattere, un giorno. In seguito, ci rechiamo al quartier generale per la sicurezza. I bambini nelle scuole fanno una esercitazione al mese e la maggior parte delle case è senza rifugio; sono stati allestiti i parcheggi sotterranei, che devono essere tenuti puliti, a volte ci si deve dormire.

Dopo ogni attacco missilistico, in ventiquattr’ore tutto deve essere ripulito. I cittadini non devono vedere lo scempio dei bombardamenti, delle case crollate. Il sindaco ha detto che in poche ore tutto deve tornare alla normalità, l’impatto psicologico potrebbe essere devastante per i cittadini. Ci fanno vedere delle immagini, del prima e del dopo; è veramente incredibile quello che riescono a fare, siamo troppo avanti: forse per questo ci odiano. Proseguiamo per Kiryat Shmona, sempre più a nord. È una piccola oasi verde, sei praticamente quasi in Libano. Viene completamente evacuata il 7 ottobre. Il timore è di un’invasione come quella al Sud. Si rivelerà infondato e preferiamo non rifletterci oltre. Diventa una città fantasma. Viene creato un database per monitorare gli spostamenti della popolazione, per non perdere il tessuto sociale della comunità. Ci sono molti divorzi tra le coppie che hanno vissuto in hotel per 2 anni. Molti hanno paura, il confine è comunque solo a un chilometro e mezzo. A Metula, sempre più a Nord, case colpite, case ricostruite. Vediamo il Libano, la Siria e il monte Hermon, ci circondano tutti, ma noi siamo qui per restare.

È tutto così vicino. Dopo due anni, non abbiamo ancora vinto, ma vinceremo ci dice fiera la guida. Un uomo sereno e tutto di un pezzo, ha otto figli, non ha mai pensato di andarsene. Finiamo la giornata, e praticamente il viaggio, dai drusi, una cena tipica in un ristorante semplice e caloroso, ci sono i fiocchi degli ostaggi, le due bandiere, questo popoloche crede nella reincarnazione lotta per noi. Non hanno una patria perché l’anima non ha confini. Il dolcissimo fratello di un eroe morto per Israele, un generale di alto grado, viene a parlarci, suo figlio di una bellezza assoluta non si stacca dalle sue gambe, ha paura, suo papà è in miluim (riservista,ndr), e potrebbe morire come lo zio. Poi i tamburi, i balli, la musica, la gioia, la speranza. Non abbiamo sentito una parola di odio in questo viaggio, mai.

Giovedì 23 ottobre Ore 10:00
Ci riuniamo tutti in una sala. Il gruppo è bello, interessante, eterogeneo. Ebrei e non ebrei, ognuno con il suo bagaglio di vita. So già che con alcuni ci rivedremo e con altri mai più, ma un filo particolare ci legherà per sempre. Ci siamo anche divertiti tanto. Ognuno ha fatto le sue riflessioni e oggi le condividiamo. Ognuno ha portato un punto di vista diverso in un sentire comune su questo popolo, su questo paese, che è stato segnato per sempre, colpito al cuore nella sua anima, che ogni volta cade e si rialza, cade e si rialza. Ho pensato di venire qui a vivere, lo penso ancora, lo penso ogni giorno. Lo pensiamo in tantissimi. Sentirsi più sicuri in Israele che in Europa. Israele: un paese costantemente in guerra, costantemente attaccato, eppure... Il mio weekend a Tel Aviv Ho sei figli, tre nipotini e molteplici impegni e incarichi in Comunità. Ho lasciato tutto per otto giorni. Gli ultimi li passo al mare con amici, festeggiamo un matrimonio. In spiaggia leggo il libro di Eli Sharabi, l’ostaggio. Il 7 ottobre è sempre lì; torna a ondate, o come dei flash, come una macchia nel cervello, un buco nel cuore, una lacerazione dell’anima. E se lo sento io che stavo a casa a Milano; qui... non so, non so come facciano. Chiudo gli occhi, in sottofondo il tipico rumore delle matkot, la musica, la lingua, i modi, laici, religiosi, arabi, coppie omosessuali che passeggiano e corrono sulla tayelet. Ogni cosa è pura emozione, qualcosa di ancestrale e radicato come eredità’ imperitura. Un papà sta facendo castelli di sabbia con suo figlio, il bambino ride felice. Poi arriva la mamma con un maschietto più piccolo. I loro genitori sanno cosa potrebbe accadere un giorno: sono morti in questa guerra mille soldati poco più che ventenni, per la maggior parte. Eppure, qui la fiducia nella vita vince; si fanno molti più figli che in Italia, in Europa. Non posso che sperare e pregare che siano sempre di meno a cadere, fino a che non ne cada più nessuno.

Sabato 25 ottobre Ore 20:00
Piazza degli ostaggi. Ci sono già stata tantissime volte, mi avevano detto che comunque non era cambiato nulla, perché non è ancora finita. Certo, percepisco un certo sollievo, ma è comunque gremita di gente. Cantano, pregano, chiedono che tornino tutti a casa. Solo che quello che stanno chiedendo adesso, è di avere indietro i corpi di quelli che non ce l’hanno fatta, anzi, a quelli a cui non è stato permesso di farcela, ma con la stessa enfasi, con la stessa energia, con la stessa unione. Sono annichilita. Sono venuti a parlare i parenti di chi è tornato, non avranno pace finché non saranno tutti a casa. È davvero un unico popolo, un unico cuore, un’unica anima. Ho visto bambini che tenevano il cartello con la foto del nonno morto e scorrevano le foto di quando, da piccoli, giocavano con lui; e ti chiedi, ancora e ancora, perché è successo tutto questo. La mia giornata oggi è finita così, domani andrò ad un matrimonio. Ps: Mi ha telefonato Ilan Dalal Gilboa, papà di Guy, che è stato rilasciato il 13 ottobre. Lo avevamo ospitato a Milano solo poche settimane prima, in occasione di un evento per giornalisti amici. Ci aveva colpiti al cuore con la sua dignità, la t shirt nera con la foto del figlio adorato, rapito da più di 700 giorni. Lo avevo abbracciato e promesso che un giorno tornerà a Milano con lui. Guy domani lascia l’ospedale e forse non riusciremo a incontrarci questa volta, mi sussurra, stupendomi nuovamente con questa estrema gentilezza. «Milano mi ha portato fortuna, sarà il primo viaggio che faremo», aggiunge.

Sembra un miracolo e in effetti lo è. Le belve di Hamas, che non ho ancora nominato in questo diario di viaggio, hanno perso. Hanno colpito, annichilito, stremato, scioccato, ma non hanno vinto. Né mai accadrà. Am Israel hai! Mi mancano naturalmente i miei cari, i miei figli, i miei nipotini; non mi manca tanto la vita di Milano in questo momento, ma non perché qui sia estate o altro del genere... perché è come se qualcosa mi chiamasse qui, o forse ci chiamasse tutti. Sono seduta di fronte al mare; l’ultima mattina mi sono svegliata molto presto, perché qui non si può dormire. Il matrimonio ieri sera è stato speciale, erano amici del cuore, abbiamo ballato come pazzi. È stata una settimana straordinaria. Continuo il libro di Eli Sharabi; ti scava dentro, grande dolore, coraggio, resilienza, struggimento, paura, speranza, luce, vita. Il mio paese straziato, dilaniato, segnato per sempre. Il mio paese forte e bello come il sole. Torno dalla mia famiglia, dai miei amici. Alla mia vita. Ma non torno a casa. Persino il tassista me lo dice. Cosa aspettate? Casa vostra è qui.