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Manovra, cosa può vendere lo Stato per tornare a crescere

Antonio Castro
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In tempi di vacche magre bisogna tagliare le spese (spending review) e/o mettere mano ai risparmi (patrimonio) per far quadrare i conti, tirare avanti e lavorare a testa bassa. Lo sanno bene padri e madri di famiglia che fanno i salti mortali per pagare le bollette, fare la spesa e magari concedersi il “folle lusso” di una serata in pizzeria una volta al mese. L’obiettivo del governo (ambizioso) è di portare in cassa la bella cifra di 20 miliardi. Un patrimonio che servirà a puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità.

Quattrini (Assegno unico, taglio del cuneo contributivo, limatura fiscale sui redditi medio bassi) non solo nelle tasche degli italiani. E anche attuare le politiche di sviluppo che potranno consentire di sostenere e rilanciare la crescita economica oggiimpantanata per gli effetti di una congiuntura internazionale non proprio rosea (guerra, inflazione, costo delle materie prime).

 

 

 

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti ha fatto eco al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: cari colleghi, raffreddate gli entusiasmi. La coperta è corta. Il tono, presentando la “cornice “ dei provvedimenti finanziari (Nadef), è un po’ più diplomatico: «In una situazione in cui la finanza pubblica è gravata dall’onere degli incentivi edilizi, dal rialzo dei tassi di interesse e dal rallentamento del ciclo economico internazionale, è necessario fare scelte difficili», ha messo nero su bianco il titolare di via XX Settembre. Insomma, l’esecutivo intende fare l’impossibile, anche attuando «scelte difficili» per promuovere «gli investimenti, l’innovazione, la crescita sostenibile e la capacità di reagire dell’economia».

Tradotto? C’è bisogno di tagliare gli sprechi (almeno 2 miliardi) e racimolare soldi. E per trovarli bisogna andat re a scavare nei beni messi da parte. La parola impronunciabile è privatizzazioni, che poi può essere declinata anche con dismissioni o alienazione. La sostanza cambia poco. In cassaforte il Tesoro ha la bellezza di 39.989 partecipazioni societarie, dirette e indirette, dichiarate dalle amministrazioni e riconducibili a 5.260 singole società (stando al Testo Unico in materia di società partecipate, Tusp).

Alcune di queste sono dei gioiellini assai appetibili. Altri dei veri e propri baracconi che contano più amministratori e consigliere che dipendenti. Tralasciando i poltronifici creati (e mantenuti in vita) per elargire gettoni e prebende, a scorrere l’elenco del “Monitoraggio e controllo sulle società a partecipazione pubblica e ricognizione degli assetti organizzativi consegnato al Servizio per il Controllo Parlamentare” nel luglio scorso, balza all’occhio la quantità di partecipazioni, quote e percentuali (anche strategiche e quindi inalienabili). Dai giganti Eni ed Enel, al colossi dell’alta tecnologia (Leonardo, ex Finmeccanica), a gruppi mastodontici come la Rai e le Ferrovie. Sempre in ballo per essere messe sul mercato, sempre ferme sotto la cupola del Tesoro, dalla stagione delle partecipazioni pubbliche della Prima Repubblica ai giorni nostri. Poi ci sono una grandinata di “piccole” società che dovrebbero essere valorizzate. Ma neppure i magistrati contabili della Corte dei Conti - ricostruisce il dossier trasmesso al Parlamento - riescono a metterli in riga. Ben 11.872 società partecipate (il 42,26%) «non rispettano uno o più parametri previsti dal Tusp».

 

 

 

Lo studio recapitato al Servizio per il Controllo parlamentare suggerisce - «visto il basso tasso di adeguamento» di queste società alle previste «misure di razionalizzazione»- di passare con la falce su quelle che «non si adeguano. Ovvero che non si metteranno a dieta. Accertata la quantità di società e partecipazioni quanto è lecito attendersi di incassare? E qui viene il bello. Negli anni - anzi negli ultimi decenni - i governi hanno più volte compreso alla voce “entrate” i proventi delle privatizzazioni. Però, a conti fatti, l’incasso effettivo è stato ben altro rispetto alle stime messe a bilancio. Rai e Ferrovie rappresentano, forse, il piatto forte. L’esecutivo conta su un incasso pari ad un punto di Pil. Venti miliardi. E forse sono anche i bocconi più prelibati da mettere sul mercato. La Rai può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti. Fs ha in pancia la gallina dalle uova d’oro dell’alta velocità. Il grande interesse per il settore del trasporto viaggiatori su rotaia è noto. È di questi giorni la vendita di Italo alla società ginevrina Msc della famiglia Aponte. Una partita da 4 miliardi per rilevare la quota di maggioranza. Resta un problemino - polemiche politiche a parte: quali delle altre 39mila società potrebbero trovare l’attenzione degli investitori? Magari continueranno a pesare sui conti pubblici come poltronifici da foraggiare... 

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