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Elezioni, tutte le paure dei Parlamentari. Gli unici tranquilli sono quelli che andranno a casa

Tra Camera e Senato hanno tutti paura. A sinistra i renziani terrorizzati dalle primarie, a destra dalle decisioni di Monti. Gli unici beati? Quelli trombati

Giulio Bucchi
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di Fosca Bincher Lui giura di essere serafico. Eppure Beppe Fioroni, uno dei leader dell'ex Margherita ora nel Pd, continua a parlare con tutti delle regole per le primarie di fine anno. Per dire che non è turbato, e dirlo decine di volte a qualsiasi interlocutore in Transatlantico. Quando vede il cronista di Libero, lo prende sottobraccio e cerca di tranquillizzarlo: «Hai mai frequentato Giulio Andreotti? Io sì, ero giovanissimo e mi insegnò a non schiacciarmi sulle cose del mondo. Perché noi politici cristiani lavoriamo per l'eternità…». Eh, sì: se davanti c'è l'eterno, cosa saranno mai queste primarie dove i posti non sono più garantiti e in pochi giorni bisogna mettere su una macchina da guerra di tutto rispetto? Eppure c'è un'aria plumbea in Parlamento. Riguarda tutti, ognuno con la devastazione sua. Quelli del Pdl che sembrano pugili suonati in attesa di un sospiro di Mario Monti e alla mercé di qualsiasi gigionata di Silvio Berlusconi.  A sinistra pensi che sorridano, si preparino alla marcia trionfale che oggi sembra destinata quasi a raddoppiare le poltrone a disposizione del partito nel prossimo Parlamento. Invece non si trovano che musi lunghi. Le primarie, sì. E anche il terremoto-Monti, di cui ancora non si comprendono bene gli esiti. Matteo Colannino sgrana gli occhialini tondi con aria seria: «Eh, sì, io Monti l'ho appoggiato convinto e pubblicamente in questo anno. Non nego di essere preoccupato dall'evoluzione delle cose. Le primarie? Beh, le farò anche io, non ho paura. A Mantova, terra mia e dove sono nate e cresciute le aziende di famiglia». Lì i Colannino hanno dato lavoro, il giovane Matteo non dovrebbe correre rischi. Ma per i corridoi del Palazzo c'è più di un deputato uscente che ha le palpitazioni. Andrea Sarubbi, è stato uno dei più presenti in aula, uno scolaro diligente, un maniaco della trasparenza, pronto a twittare anche le buste paga. Era uno degli innesti dalla società civile: un cattolico esperto di problemi di immigrazione voluto nel 2008 (era stato anche conduttore sulla Rai del programma religioso domenicale «A sua immagine»). Quando non era in aula ha girato l'Italia per incontri. Ma non ha un collegio suo, non ha gli agganci giusti con i signori delle tessere che saranno decisivi il giorno delle primarie del Pd. E per di più si è battuto come un leone per Matteo Renzi, cosa che non fa grande simpatia all'interno del partito. Risultato: si prepara a tornare a casa. Gli hanno offerto di correre a Roma, «ma la condizione minima per partecipare è dimostrare di avere 5 mila voti propri. E io dove ce li ho a Roma? E come lo dimostro?». Più in là c'è il collaboratore di un vecchio leone Pd che mi spiega: «Bisogna appoggiarsi sugli organizzatori. A Roma ce ne è uno che conosciamo tutti e che ha un pacchetto 20-25 mila voti. Vale oro. Ma è già stato prenotato da Dario Franceschini per uno dei suoi due stretti collaboratori. Non c'è spazio per altri, e i posti sicuri alle primarie stanno andando via come il pane».  Sorridono sicuri solo i vecchi leoni che hanno annunciato il beau geste di non correre avendo troppe legislature alle spalle. Come Pierluigi Castagnetti che guarda in coda alla buvette l'apprensione dei colleghi. O Livia Turco, che sbrana fino all'ultimo velo cremoso lo yoghurt gigantesco che è pranzo frugale per mantenere la linea. Lei non correrà più, ma sostiene un suo collega con pizzico di veleno che «per fare il passo indietro ha trattato un posto sicuro alle primarie per un suo stretto collaboratore». Sorride e stringe la mano a tutti Walter Veltroni, altro ex virtuale che non può più tornare indietro su un ritiro comunicato urbi et orbi. Poi torna sui suoi passi, e va dal cronista di Libero: «Ho letto il tuo pezzo sulla mia dichiarazione dei redditi, sei stato cattivello su quei trasferimenti finanziari all'estero». Cattivello? Era una citazione senza commento dei dati contenuti nel modello unico della signora Veltroni, Flavia Prisco: 650 mila euro dichiarati come attività finanziarie detenute all'estero. Veltroni sorride: «Mi conosci da anni, sai che io non capisco nulla di strumenti finanziari, non sono il tipo. Ma no, è che mia figlia sta in America e quindi abbiamo pensato ad aiutarla lì». Padri generosi: con quei 650 mila euro certo la figlia non farà la fame nemmeno nei carissimi Stati Uniti.  E nel Pdl? Due flash. Fuori dal palazzo. Attraversa la strada Andrea Ronchi, prima Pdl, poi Fli, poi di nuovo marcia indietro in movimento autonomo ma filo Pdl. «Che casino, che disgregazione ora!», esclama interrompendosi solo per l'arrivo di una telefonata («Amore, sono impegnato, ti richiamo subito!»), «E alla fine tutto questo per nulla perché ormai è chiaro che Mario Monti non scenderà in campo. Ci sarà Silvio Berlusconi che vedo in una forma strepitosa, come non accadeva da anni…». Poco più in là si incontrano davanti al garage di Montecitorio Alessandra Mussolini e Francesco Boccia. Parlottano fitto, il cronista si avvicina e scopre che l'argomento è Monti. Boccia è perplesso, «in queste condizioni se scende in campo fa il leader del quarto polo, perché finisce alle spalle di tutti, sia di Berlusconi che di Grillo». La Mussolini sgrana gli occhi. Boccia la rassicura: «Guarda se lasciate fare a Berlusconi, quello vi porta almeno al 20%. La sua campagna funziona, a patto però che stiate tutti zitti e lasciate fare a lui». La Mussolini sorride: «Dici? E allora chi parla più?».

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