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Telese, tutti scappano dal Pd. I numeri del crollo di Matteo Renzi

Giovanni Ruggiero
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Quello del Pd sembra il bollettino di guerra di un esercito in rotta: sezioni che chiudono, iscritti che crollano, il 40% dei militanti in meno nella roccaforte dell' Emilia. Rispetto ai tempi di Bersani a livello nazionale chiude quasi una sede su due (da 7.000 a 4.500). E poi c' è la scissione estenuante verso sinistra, del tutto anomala rispetto al passato: non strappo, ma stillicidio. Uno a uno se ne vanno militanti e dirigenti. A conti fatti è peggio di togliersi il dente: è come non guarire mai, e gli oppositori che restano dentro si ringalluzziscono. C' è un grande paradosso che manda il tilt tutti i pronostici sul Pd. Tutto va come Matteo Renzi aveva programmato: ma l' effetto è il contrario di quello previsto. E c' è un incredibile spettro, che per ora molti sondaggisti (in tempo di crisi hanno come principale cliente Palazzo Chigi) tengono sapientemente in ombra: se si votasse oggi il Pd potrebbe rischiare di non andare al ballottaggio, alle politiche. Alle amministrative di primavera, poi, il partito non ha ancora candidati ufficiali né a Milano (Sala o non Sala? Pisapia sì o no?) e soprattutto a Roma. A Cagliari e Genova ci sono sindaci di area Sel. A Torino è insidiato da sinistra. A Napoli è fuori concorso, se non per un autocandidato alle primarie - Antonio Bassolino - osteggiato sia dai dirigenti locali che dai vicesegretari del Pd. Debora Serracchiani aveva appena detto «non può correre», quando Renzi ha fatto precipitosa marcia indietro, pur di non apparire - proprio lui, l' uomo delle primarie - nemico della democrazia diretta. Ma dove nasce questo malessere, per ora occultato con sapienza? Il primo problema, si potrebbe dire, è «il rischio rigetto». Non è un mistero che dai tempi del leggendario «Fassina chi?», Renzi avesse un' idea molto chiara sulla sinistra interna: se si levano dalle scatole è un bene. Non erano (né la battuta contro l' allora viceministro, né l' idea di favorire l' esodo) frutto di cattiveria o avventatezza: il Renzi che aveva trionfato alle europee - il famoso 40,8% trasformato in scenografia - era convinto di cinque cose: 1) i voti li portava lui, 2) l' economia stava per decollare, 3) il Pd era un corpo morto su cui trapiantare i nuovi organi verdiniani-alfaniani del partito della nazione, 4) per fare questo era utile far fuori gli ultimi residui della «ditta» privi di appeal elettorale, 5) il centrodestra finite le larghe intese, era spappolato e marginale. In questa ottica il leader del Pd aveva fatto di tutto per forzare gli (all' epoca) alleati di Forza Italia a votare nell' Italicum una norma che aboliva le coalizioni e creava una lista unica, fissando la vittoria al primo turno al 40%. «Una pirlata», mi disse quel giorno Matteo Salvini (e aveva ragione). Quel Renzi pensava che - con il solo Pd - avrebbe raggiuntola soglia. Analisi perfetta, ma nulla è andato come previsto. L' economia non è ripartita. Nelle ultime amministrative il Pd è precipitato al 24% (dato occultato ma incredibile: un punto in meno del Pd di Bersani). Tutti i militanti del Pd quando sentono il nome di Denis Verdini e le sue massime («io sono il taxi che traghetta verso il potere») si fanno il segno della croce. Lo stillicidio degli addii coinvolge sia la sinistra interna che gli ex bersaniani moderati (come il seriosissimo Alfredo D' Attorre): non rafforza l' organismo del Pd come una amputazione, ma lo debilita come un' emorragia. Il 40%, alla portata, due anni fa, ora pare impossibile. E il centrodestra? Solo il fatto che i sondaggisti lo stimino separatamente attenua il dato: la crescita impetuosa della Lega, la tenuta di Forza Italia, la buona performance di Fratelli d' Italia lo tengono stabile fra il 32 e il 35%. La manifestazione di Bologna ha solo reso visibile questa forza. Insomma, se il Pd recuperasse quota 30%, senza Sel sarebbe sicuramente sotto il «Be-Sa-Me» (Berlusconi-Salvini-Meloni) e potrebbe essere scalabile dai grillini, che tutte le indagini danno in crescita. Ma il problema è più profondo: si chiama identità. Dopo la disfatta delle amministrative (in Liguria è bastata una candidatura di sinistra al 10%, quella di Luca Pastorino, per perdere) gli storytellers renziani hanno detto: il vecchio Pd ha strozzato il nuovo. Oggi è il contrario: il nuovo Pd non esiste sui territori, e se non ci fosse il vecchio (esemplare il caso Bassolino) sarebbe spazzato via. A Roma, per di più, la fine di Marino è stata gestita in modo devastante. Una Caporetto culminata con l' accoltellamento del sindaco a mezzo notaio ha spianato la strada alla candidatura di Stefano Fassina, che andrà bene: al punto che a Palazzo Chigi per ora non trovano nessuno, di rango, disposto a correre. Altro tassello nuovo: alle europee la sinistra era divisa in tre (Sel, Tsipras, bersaniani nel Pd) adesso si unisce nella capitale dietro all' ex vice-ministro, a Torino dietro all' ex sindacalista della Fiom Giorgio Airaudo (popolare in città) che è riuscito a fondere tutte le liste in una sola.Dice l' ex sindaco Diego Novelli: «Se Giorgio prende il 10% Fassino va al ballottaggio e perde». In questo scenario Angelino Alfano e Beatrice Lorenzin, i potenziali «Nazionalisti» si sono sentiti rispondere che di liste comuni non se ne parla. Anche perché il rigetto del trapianto è sempre più probabile: la nuova promessa dei 500 euro ai 18enni non recupera i voti persi con la riforma della buona scuola, che ha seminato ira tra docenti e insegnanti. Le ultime dichiarazioni del ministro Poletti sulla fine della retribuzione oraria fanno apparire agli elettori dell' ex Pds Susanna Camusso non come la conservatrice delle parodie crozziane, ma come un bene rifugio. Dice Airaudo: «Renzi ha vinto con la promessa della rottamazione, è diventato un restauratore». Immaginate cosa significa per uno che votava Pci avere come alleato il senatore D' Anna che mimava un pompino in Senato, e - tra i candidati delle liste di De Luca - gente come Attilio Malafronte detto «Calibro 12», già indagato per una storia di loculi a Pompei. Il dubbio del renzismo non è se sia opportuno averli alleati o meno: è che senza di loro non si vince. Luca Telese

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