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Bersani è già finito e non lo sa

La leadership del segretario è già finita perché Pier Luigi non è stato in grado di fare il capo, lo dimostra il cerchio magico di "yes man" e ragazzini che porterà a fondo il partito

Lucia Esposito
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  di Giampaolo Pansa Siamo alle solite, vale a dire al giudizio sferzante che Carlo De Benedetti aveva dato di Pier Luigi Bersani, il segretario del Partito democratico. Era il 17 novembre 2011 e l'Ingegnere venne intervistato da Aldo Cazzullo per il Corriere della sera. Interpellato su Bersani, Cidibì non esitò a dire: «È stato un eccellente  ministro. Ma come leader del Pd è totalmente inadeguato».  Ho imparato da tempo che le sentenze dell'Ingegnere non sono il Vangelo. Spesso Cidibì straparla e gli accade  di sbroccare come succede a tutti,    me compreso. Allora la bocciatura mi sembrò eccessiva, ma oggi devo riconoscere che si trattava di un giudizio azzeccato.  In questa maledetta primavera, il segretario del Pd è diventato un punching ball, i sacchi di gomma che nelle palestre tutti prendono a pugni. Mi ha molto colpito quello che ha detto di lui il fratello, intervistato a Bettola, il paese natale dei Bersani. Quando gli è stato chiesto se Pier Luigi sarebbe diventato premier, il fratellone ha buttato lì: «Sì, ma in un'altra vita!». In effetti l'elenco delle sconfitte di Bersani sembra non finire mai. Era straconvinto di vincere le elezioni di febbraio e invece ha perso per strada quattro milioni di voti. Grazie al Porcellum, ha fatto il pieno di deputati, ma al Senato non ha la maggioranza. Dopo aver ricevuto un pre-incarico dal presidente della Repubblica, si è accorto di non trovare alleati in grado di portarlo a Palazzo Chigi.  In compenso ha scoperto di avere molti nemici in casa. Alcuni erano vecchi big del partito, costretti a mettersi in disparte o scartati nella distribuzione degli incarichi. Sto parlando di D'Alema, di Veltroni, della signora Finocchiaro, di Franceschini. E su questo fronte ha cominciato a incontrare  qualche sorpresa. L'ultima è di ieri. Franceschini è sbottato, dicendo al Corriere della sera: «Abbiamo una strada obbligata: fare un accordo con Silvio Berlusconi». Esattamente quello che Bersani aveva sempre escluso. Sostenendo che il partito non avrebbe mai accettato il minimo contatto con il Cavaliere. I big sono stati sostituiti da personaggi più graditi a Bersani o ritenuti dei signorsì, esecutori fedeli delle sue strategie. A guidare il gruppo al Senato ha messo Luigi Zanda, 70 anni, il vice della signora Finocchiaro. Ogni volta che lo rivedo in tivù con quei capelli diritti come per una scossa elettrica, mi ricordo di quando faceva il segretario-portavoce di Francesco Cossiga, al ministero dell'Interno e poi a Palazzo Chigi. Ma allora la chioma gli si rizzava perché lavorare per il futuro Picconatore era un mestiere da non augurare a nessuno. Zanda si sentirà nello stesso modo adesso che per conto di Bersani guida i senatori democratici? Inutile chiederlo a lui. È sempre stato un signore cortese e alla mano, però molto riservato sulle faccende dell'ufficio. E non ce lo dirà mai.  Nell'andare e venire dalle stanze di Napolitano al Quirinale in compagnia di Bersani, Zanda ha mostrato ai telegiornali una faccia stramba che non gli conoscevo: tra l'ingrugnato e il furioso. Un'espressione insolita per un tipo sorridente e di buonumore qual è. Ho immaginato che nutrisse pensieri tristi sulla sorte del suo leader e, di riflesso, per quella del Paese. Del tutto diversa era la faccia del capogruppo alla Camera, il giovane Roberto Speranza, 34 anni, deputato esordiente, anche lui al seguito di Bersani al Quirinale. Non conosco la sorte di questa recluta, quanto durerà e se farà meglio o peggio del capo gruppo destituito, il Franceschini. Ma la sua nomina ci aiuta a capire di che pasta sia fatto il cerchio magico che il segretario del Pd ha voluto attorno a sé.  Una volta scomparso Filippo Penati per motivi giudiziari, Bersani si è circondato di personaggi grigi. Uomini del vecchio apparato postcomunista, come il piacentino Migliavacca o il ravennate Errani. Oppure apprendisti come lo Speranza, del quale finora abbiamo conosciuto soltanto la verbosità estrema. Mandato in tivù davanti a madama Gruber, ha parlato, parlato, parlato. E quando in parecchi ci siamo chiesti che cosa avesse detto, nessuno è stato in grado di ricordarlo.  Quanto durerà la parabola di Bersani? È una domanda inevitabile in questi giorni che vedono Matteo Renzi partito all'attacco del segretario per scalzarlo e prenderne il posto. I cronisti non devono mai fare previsioni. Tuttavia i più anziani, come il sottoscritto, possono ricorrere all'esperienza maturata in anni di lavoro. Raccontando un'infinità di volte le contorsioni della politica italiana, ho compreso che nessun partito è in grado di durare se non si fonda su un requisito ferreo: la presenza di un capo assoluto che comanda su tutto e tutti. I politologi lo chiamano il partito monocratico. È un bene o un male? La risposta sta nei fatti. I partiti assembleari sono sempre un disastro. Sembrano il regno della democrazia, ma in realtà risultano accampamenti pronti a disfarsi al minimo vento contrario.  Guardiamoci intorno. Il Pdl regge perché è comandato da un solo uomo, Silvio Berlusconi. Il dominus è lui e nessun altro. Nel giro di una settimana, può annunciare quattro progetti diversi e tutti lo seguono. Sino a ieri, il Cavaliere spasimava per le elezioni a giugno. Adesso dice che la priorità è fare il governo. Lo stesso accade nel Movimento 5 Stelle. Anche qui c'è un dittatore, Beppe Grillo, allenato dal guru Gianroberto Casaleggio. Se i due litigassero, e risultasse chiaro che non esiste un duce stellare, i parlamentari grillini diventerebbero un gregge di pecore matte. Costrette a chiedere asilo politico ai vecchi partiti tanto vituperati.  Funziona nel Pd il principio del Capo? Penso di no. Il partito rischia di esplodere sotto la sedia di Bersani. È già in atto una scissione, al momento non dichiarata. Se il sindaco di Firenze continuerà nel braccio di ferro, il finale mi sembra abbastanza scontato. Se a vincere è Bersani, allora Renzi se ne va, aprendo una bottega tutta sua. Se a vincere è Renzi, il Pd si spacca lo stesso perché i bersaniani si metteranno da soli, magari insieme a Nichi Vendola che gli ha proposto di «mescolarsi». Il segretario c'è già: Fabrizio Barca, ministro del governo Monti, persona seria, ma con troppe nostalgie per il defunto Pci e specialmente per Palmiro Togliatti.  Nel Pd sta succedendo quel che era descritto nel Padrino, il romanzo di Mario Puzo sulla mafia siculo-americana. Di colpo i clan andavano ai materassi e cominciavano a spararsi. Mentre Franceschini invocava una trattativa con Berlusconi, Rosy Bindi, dalemiana disperata, sul Secolo XIX di Genova ringhiava: «Bersani ci tiene in ostaggio!».  Il tutto avviene in uno scenario da terza guerra mondiale. Mentre l'Italia dell'uomo della strada, senza soldi né potere, va a ramengo, il Paese dei vip si trastulla con storie e storiacce. La Zanzara, programma cult della radio del Sole-24 Ore, quotidiano degli imprenditori e non di qualche gruppo estremista, gioca un pessimo scherzo ai danni di un galantuomo come Valerio Onida. E Giuseppe Cruciani, zanzarone capo, nonché tifoso del centrodestra, se ne vanta invece di scusarsi.  La stranezza è che a difendere Onida provvede Michele Serra su un giornale, Repubblica, che stampando intercettazioni a gogò ha fatto strame della privacy di un'infinità di signori e signore. Dappertutto domina un linguaggio violento. Tanto che Ezio Mauro, il capo dei repubblicani, è arrivato a intitolare «Caimani» un suo articolo sprezzante dedicato ai parlamentari di centrodestra.  Sento sullo sfondo gli scricchiolii di un crollo annunciato. Se mai ci sarà, anche la caduta di Bersani risulterà quasi impercettibile.     

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