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Pd verso la scissione: addio degli ex Dc?

Bersani nega, D'Alema è un po' meno deciso. La verità è che in largo del Nazareno i centristi hanno perso la pazienza: partita decisiva sul Colle

Giulio Bucchi
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  di Fausto Carioti Torna lo spettro della scissione e i vertici del Pd si affannano a esorcizzarlo. «Non abbiamo problemi di questo genere», assicura Pier Luigi Bersani. Stessa sostanza, ma con un po' di spavalderia in meno, nelle parole di Massimo D'Alema: «Non mi pare che ci sia un problema di questo tipo», dice. Invece il problema c'è, eccome. Solo che non è questo il momento per parlarne a voce alta e microfoni accesi. Tutto è ancora sospeso: l'incarico a Bersani, ufficialmente, non è stato ritirato dal Quirinale, e sul Colle i democratici si giocano una partita importante, alla quale sarà il caso di presentarsi compatti. Proprio il modo in cui il Pd si comporterà durante l'elezione del Capo dello Stato deciderà il destino del partito. La componente ex dc del Pd è fatta di tante anime, spesso in contrasto tra loro. Una cosa, però, le accomuna tutte: soffrono, perché si ritengono figlie di un dio minore. Una sensazione comprensibile, in un partito egemonizzato dagli ex ds, a partire dai vertici per finire con la base (quella che sul web nei giorni scorsi si è scagliata contro Dario Franceschini dandogli del «democristiano»). Non tutte queste anime hanno digerito male l'accordo con Sel, ma tutte accusano Bersani di aver perso tempo appresso agli impresentabili grillini. Lo schiaffo dato a Matteo Renzi dall'oligarchia del partito, che lo ha estromesso dai grandi elettori del presidente della Repubblica, ha rafforzato la sensazione: anche per ragioni anagrafiche il sindaco di Firenze non fa parte della vecchia guardia scudocrociata, ma resta uno dei loro, nato nella Dc. D'Alema sa che la frattura è potenzialmente devastante, così la prima cosa che ha fatto ieri incontrando Renzi è stata definire «un errore» il voto che lo aveva tagliato fuori dagli elettori quirinalizi. La prova del nove, per tutti costoro, sarà la scelta del prossimo presidente della Repubblica. Dopo un azionista come Carlo Azeglio Ciampi e un comunista storico come Napolitano, i cattolici del Pd sono convinti che tocchi a uno dei loro. I popolari puntano tutto su Franco Marini, che è stato presidente del Senato e prima ancora leader della Cisl. Su Marini, Silvio Berlusconi è più che disposto a discutere, anche se nella sua personale classifica viene prima Giuliano Amato.  L'operazione ha possibilità di andare in porto solo se Marini diventa il candidato di tutto il partito, inclusi gli ex comunisti. I quali per ora giocano a carte coperte, ma negli abboccamenti che intanto hanno avuto con gli uomini del Cavaliere hanno ragionato solo su candidature provenienti dalle loro file: malgrado le smentite, D'Alema, Violante e lo stesso Bersani sono quanto di più simile ci sia oggi alla rosa dei candidati del Pd per il Colle. Di Marini, o comunque di un cattolico, con la controparte berlusconiana non hanno ancora discusso. Forse è un bene (spesso i candidati vincenti per il Colle emergono alla distanza), ma forse no. Di sicuro i margheritini non intendono essere tagliati fuori dalla trattativa né subire ulteriori umiliazioni. Nei prossimi giorni si attendono dagli ex ds quella prova, se non di amore, almeno di rispetto e considerazione, che sino ad oggi non hanno avuto. Altrimenti anche loro intraprenderanno quel percorso “identitario” che significa, in pratica, scissione del partito: la gran parte dei post-democristiani da una parte, presumibilmente sotto la guida di Renzi, e i post-comunisti dall'altra, con Fabrizio Barca segretario di un partito destinato a fondersi con l'altra versione postmoderna del Pci, quella di Vendola.     

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