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De Benedetti, dal crac di Calvi ai soldi a Scalfari: 8 domande per l'Ingegnere

Carlo De Benedetti

Appena uscito dall'Ambrosiano con 81 miliardi, comprò l'indebitato gruppo l'Espresso. Che faceva una campagna proprio contro la banca

Giulio Bucchi
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La vicenda potrebbe essere riassunta nel classico “due pesi e due misure”. Ed è difficile trovare esempi più eclatanti del diverso trattamento riservato dalla Cassazione al Cavaliere e all'Ingegnere. La Suprema Corte ha impiegato poco più di due mesi per rendere definitiva la condanna di Silvio Berlusconi a 4 anni per la vicenda dei diritti Mediaset. Ha impiegato un po' meno di due anni per ripulire la fedina penale di Carlo De Benedetti dalle due condanne (6 anni e 4 mesi e 4 anni e 6 mesi, in primo e secondo grado nel '92 e nel ‘96) per la pesante accusa di concorso in bancarotta fraudolenta nella vicenda molto oscura del crack del Banco Ambrosiano.  Per 65 giorni trascorsi come vicepresidente all'Ambrosiano, dal 18 novembre '81 al 22 gennaio '82, De Benedetti ne uscì con 81,5 miliardi di lire, “estorti” a Roberto Calvi, secondo il pm Luigi Dell'Osso che però non riuscì mai a far processare l'Ingegnere per tale ipotesi di reato. De Benedetti intasca una plusvalenza di  -  almeno - 30 miliardi. Il Tribunale e la corte d'appello di Milano nel condannare per concorso in bancarotta l'Ingegnere hanno più volte accennato al ruolo svolto da Repubblica e l'Espresso con lunghe e aggressive campagne stampa contro Calvi e l'Ambrosiano, intervallate da improvvise e brevi bonacce. La volta scorsa avevamo riportato questa frase della condanna del Tribunale di Milano: «Non bisogna dimenticare che il comparto estero del Banco Ambrosiano aveva attirato per tutto il 1981, a tacer d'altro, le attenzioni del giornale la Repubblica e del settimanale l'Espresso, entrambi facenti capo all'imputato». Bisogna tenere a mente queste parole: «a tacer d'altro» e «entrambi facenti capo all'imputato»: perché all'epoca De Benedetti, ufficialmente, non era azionista del gruppo. Nelle due precedenti puntate ci siamo permessi di proporre tre domande a due protagonisti in vita e che fortunatamente godono di ottima salute, il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti. La prima è quella ripetutamente avanzata da Staiti di Cuddia, allora deputato del Msi: 1) Perché De Benedetti non andò alla Procura della Repubblica a denunciare ciò che aveva scoperto? Siccome, con una certa sorpresa, abbiamo verificato che in realtà De Benedetti in sede civile, prima della sentenza d'appello, ha rimborsato una cifra - si dice - di 30 miliardi alla gestione liquidatoria del vecchio Ambrosiano, che si è ritirata dalle parti civili, ecco la seconda domanda: 2) Perché l'Ingegnere che si è sempre detto innocente ha accettato di transare? Per la terza domanda cercheremo di trovare una risposta in questa puntata: 3) Per caso De Benedetti nel suo passaggio all'Ambrosiano, cruciale nel destino della banca, era socio occulto e/o aveva il controllo del gruppo Repubblica-L'Espresso? Della questione a suo tempo si è occupato Mario Tedeschi con molti articoli sul Borghese e con un libro, prezioso (Ambrosiano. Il contro processo). Libero ha trovato i documenti. E qui, dopo le parole del Tribunale, bisogna fare molta, molta attenzione alle date.  Il 30 settembre 1981 il principe Carlo Caracciolo di Castagneto, co-editore con Scalfari di Repubblica e Espresso, convoca l'assemblea straordinaria dell'Editoriale L'Espresso Spa. Deve essere deliberato un aumento di capitale: da 1,5 a 4 miliardi; bisogna mettere mano al portafogli. Il gruppo è in espansione, la filosofia è quella di garantire ai lettori i valori di libertà e autonomia editoriale. Ottimi intenti, ma, insomma, il gruppo  -  causa le condizioni generali del Paese, gli alti  tassi d'interesse o forse anche altro -  è in un mare di debiti (quanti debiti lo vedremo tra poco). Ma dopo poche settimane quell'aumento di capitale non è più necessario. Cos'è successo? Una società di gestione fiduciaria, la Rigim Spa (Riunione Generale Italiana di Mobilizzazione), offre un finanziamento di ben 4,3 miliardi a fronte di fedi di investimento. La fede di investimento è un titolo di credito i cui sottoscrittori forniscono capitali da gestire fiduciariamente. Le condizioni sono più che buone. Il destinatario del finanziamento lo può estinguere «in qualsiasi momento», le fedi possono essere convertite in azioni del Gruppo L'Espresso «dal 1.1.1983 al 31.12.1985». C'è la mano dell'Ingegnere? Sì. Combinazione, il 5 ottobre 1981 nella Rigim entra come sindaco Giulio Segre, della famiglia Segre che da sempre è l'ombra degli affari dell'Ingegnere, ed entra direttamente nel cda proprio De Benedetti. Il quale si dimetterà nell'85 ad operazione definita e conclusa. Ma lo abbiamo detto: bisogna stare molto attenti alle date. Quando l'Ingegnere ha deciso di dare l'avvio all'assalto all'Ambrosiano? Proprio nell'ottobre 1981. Smentendo se stesso e quanto sosterrà una volta indagato e sotto processo, in tempi non sospetti il 12 dicembre '81 al giudice Colombo che indaga sulle liste della P2 ha dichiarato: «Questo discorso con Calvi inizia nell'ultima parte di ottobre … gli proposi un mio ingresso diretto nella compagine azionaria e nel consiglio di amministrazione in qualità di vicepresidente del Banco Ambrosiano». Cosa che avviene il 18 novembre. Il 14 dicembre ‘81 Carlo Caracciolo riconvoca l'assemblea straordinaria del Gruppo Espresso e informa gli  azionisti che «ragioni di opportunità rendono necessario annullare l'aumento di capitale del 30 settembre». Annuncia il provvidenziale finanziamento della Rigim. A quanto ammonta la situazione debitoria del gruppo? Secondo Mario Tedeschi (che, come sostiene il figlio Claudio, non ha mai ricevuto querele o smentite) a fine '81 l'indebitamento verso le banche era di 10,4 miliardi contro i 3,4 di un anno prima, 5 miliardi verso i fornitori, 3 miliardi di oneri finanziari invece di 1 miliardo dell'80. In questa situazione se, per dire, Eugenio Scalfari sulle colonne di Repubblica avesse avanzato, come fu fatto da più parti, dubbi di carattere etico e morale sulla buonuscita di quasi 82 miliardi e una plusvalenza di - almeno - 30 miliardi ottenuta il 22 gennaio 1982 da De Benedetti, quel generoso finanziamento avrebbe avuto seguito? E senza i 4,3 miliardi della Rigim il gruppo Repubblica-Espresso avrebbe spiccato il volo diventando in pochissimo tempo il primo o secondo gruppo editoriale in Italia? Ma queste sono domande retoriche. In punto vero è un altro. Quando materialmente è stato erogato il finanziamento? E qui bisogna lasciare la parola a Mario Tedeschi, che - da quanto riporta -  ha ricavato però la spiegazione dal bilancio 1981 del Gruppo L'Espresso Spa: «Dal 2 febbraio 1982 sono affluiti nelle casse dell'Editoriale L'Espresso i 4.320 milioni dell'operazione Rigim Spa». Cioè 10 giorni dopo l'uscita di De Benedetti dall'Ambrosiano. Ci permettiamo quindi di aggiungere altre quattro domande, alle tre precedenti. Alcune espressamente rivolte all'Ingegnere, altre ad Eugenio Scalfari. 4) Il finanziamento di 4,3 miliardi decisivo per le sorti del Gruppo L'Espresso proveniva dalla plusvalenza ottenuta dall'Ingegnere a spese di Calvi e dell'Ambrosiano sull'orlo del fallimento? 5) Quali erano le «ragioni di opportunità» che il 14 dicembre '81 resero necessario annullare l'aumento di capitale deliberato dal Gruppo L'Espresso appena il 30 settembre? 6) Perché fu accettato il finanziamento di 4,3 miliardi della Rigim, in cui era appena entrato come amministratore De Benedetti? 7) Scalfari, date anche le sovrapposizioni temporali, si è mai interrogato da dove provenissero quei soldi? 8) Lo ha chiesto a Carlo De Benedetti (o a Carlo Caracciolo)? E perché, qualunque fosse stata eventualmente la risposta, ha ritenuto di non doverla rendere nota ai suoi lettori? di Pierangelo Maurizio

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