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Pdl, il retroscena da Arcore: spaccatura totale tra falchi e colombe

Maurizio Lupi, Fabrizio Cicchitto e Denis Verdini

Giulio Bucchi
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La spaccatura nel Pdl è totale. Bastava sentire i resoconti del consiglio di guerra riunito ieri ad Arcore. Un superfalco, intercettato all'uscita di Villa San Martino sotto l'acquazzone torrenziale che verso le 18 si è rovesciato su Arcore, ha confidato: «Dopo quello che ha detto Berlusconi, fossi un ministro, io mi dimetterei». Mentre una colomba, beccata sull'aereo di ritorno a Roma un attimo prima che spegnesse il telefonino, ha giurato: «Abbiamo vinto noi, abbiamo ricondotto Berlusconi alla ragione». Sotto i riflettori marciano come un sol uomo facendo quadrato intorno al capo. Dietro le quinte, vanno in ordine sparso e se le danno di santa ragione. Come hanno fatto il coordinatore nazionale, Denis Verdini, e l'ex capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto: immagine plastica della dicotomia del Pdl. Il vertice di Arcore, allargato alle seconde file (in tutto erano una ventina), ha dimostrato che, al di là delle dichiarazioni preventive di unità, esiste eccome una spaccatura tra moderati e oltranzisti. E ieri, giorno del redde rationem tra falchi e colombe, ha vinto la linea dura. Che alla corte di Re Silvio sarebbero volati gli stracci, si è capito sin dal mattino, dal comunicato congiunto dei ministri Lupi e Quagliariello: «Ad ausilio preventivo di cronache e retroscena, oggi dal presidente Berlusconi non andrà in onda un match tra la squadra parlamentare del Pdl e la sua delegazione governativa in versione “pseudo-sindacale”. Oggi si riunirà un partito determinato a perseguire la strada migliore per il bene del nostro Paese, del nostro leader e del nostro movimento politico». Dichiarazione che aveva tutto il sapore di un'excusatio non petita. Il vertice, infatti, ha ribaltato il pronostico istituzionale. Alla fine del consiglio di guerra, il Cavaliere non ha preso nessuna decisione, ma la sua linea in questo momento pende più dalla parte dei pasdaran. È stato l'intervento di Verdini quello che il leader ha apprezzato di più. Quando il coordinatore nazionale ha dichiarato: «Non c'è da aspettarsi niente, non possiamo governare con questa gente, non c'è più nessun margine di trattativa, basta», Berlusconi, annuendo vistosamente, ha esclamato: «Condivido tutto quello che dici, parola per parola». «Massì, rompiamo, andiamo a elezioni e vinciamole, cos'aspettiamo?», ha rincarato Daniela Santanchè. A tarpare le ali ai falchi è intervenuto Cicchitto: «Occhio, che le categorie sono veramente molto preoccupate di un'eventuale caduta del governo, daranno la colpa a noi, sarà un'emorragia di voti». «Ma chi cazzo se ne frega», è sbottato Verdini. Da lì la situazione è degenerata. Anche Quagliariello, che oltre a essere ministro è senatore, ha messo in guardia Berlusconi dal provocare la crisi: «Attento, perché Letta ha già venti senatori, soprattutto grillini, pronti a passare con lui se noi del Pdl ci sfiliamo», ha avvertito, perorando la via del ricorso alla Corte Costituzionale per bloccare la decadenza del Cav in Giunta immunità. Proposta che non ha scaldato gli animi. Era questo il clima respirato dalle colombe, che si sentivano «in trappola» ieri ad Arcore. Tant'è che, fiutata l'aria, Alfano ha mutato piume, diventano il più falco di tutti: «Presidente, siamo pronti a staccare la spina al governo», ha giurato, «dicci quello che dobbiamo fare e noi eseguiamo, a un tuo segnale noi ci dimettiamo».  di Barbara Romano  

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