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Umberto Bossi chiamò Napolitano "terùn"? Massacrato dai giudici: ai servizi sociali

Davide Locano
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Albino, provincia di Bergamo, 29 dicembre 2011. Umberto Bossi, leader della Lega, partecipa alla seconda edizione della festa provinciale del Carroccio. Nel corso del comizio, quello che fino a poche settimane prima era stato il ministro delle Riforme dell'ultimo governo Berlusconi, appena sostituito con l'esecutivo tecnico di Mario Monti, si scaglia contro Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Il linguaggio è quello tipico delle manifestazioni politiche. Il tono di Bossi, com'era nella natura del Senatùr, è concitato, travolgente. Solo che il fondatore della Lega, per l'occasione, aggiunge qualcosa: l'espressione «terùn» - terrone - e il gesto delle corna con la mano destra all'indirizzo del Capo dello Stato, napoletano di nascita. Otto anni dopo, quell'intemerata polemica è costata a Bossi, dopo l'apertura del procedimento penale per vilipendio al presidente della Repubblica, prima la condanna in via definitiva a un anno e quindici giorni di reclusione (lo scorso 12 settembre); poi, ieri, un ordine di carcerazione. Avete capito bene: Bossi deve andare in carcere per aver dato del «terrone» a Napolitano. COME BERLUSCONI Solo la contestuale emissione, da parte del sostituto procuratore generale di Brescia Gian Paolo Volpe, di un decreto di sospensione della pena ha salvato l'attuale senatore della Lega dalla prigione. Un atto, quello dei magistrati, che adesso consente a Bossi di chiedere, entro trenta giorni, di accedere a una delle misure alternative di detenzione: l'affidamento in prova ai servizi sociali (come fece Silvio Berlusconi dopo la condanna per i diritti tv Mediaset); la detenzione domiciliare; la semilibertà; la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva e l'affidamento in prova. Se il fondatore del Carroccio non opterà per nessuna delle pene alternative, la procura generale di Brescia si attiverà per far scontare a Bossi il periodo di reclusione. Leggi anche: Alla festa di Renzo Bossi, l'agguato a Salvini Il reato di vilipendio è disciplinato dall'articolo 278 del Codice penale e prevede la pena della reclusione, che oscilla da uno a cinque anni di carcere. In primo grado, il 22 settembre 2015, il tribunale di Bergamo aveva inflitto a Bossi un anno e sei mesi di reclusione. In appello, l'11 gennaio 2017, la condanna era stata confermata, seppure con una lieve riduzione della pena (dodici mesi). Pochi giorni fa, il procedimento ha terminato il suo corso con la pronuncia della prima sezione penale della corte di Cassazione. Non paga, la Suprema corte ha condannato Bossi anche a pagare 2mila euro alla Cassa delle ammende. Ieri è arrivato il sigillo delle toghe bresciane, con la firma dell'ordine di carcerazione (poi sospeso). DECINE DI QUERELE A nulla sono valse, in tutti questi anni, le tesi della difesa, secondo cui le parole di Bossi si sarebbero dovute far rientrare nell'esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nel comizio incriminato, il Senatùr contestò Napolitano con queste parole: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica, che è venuto a riempirci di Tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Quindi il gesto delle corna. Apriti, cielo: alle parole di Bossi seguirono polemiche a tutto spiano, decine di querele e l'esposto che diede vita all'iter giudiziario. Con l'ipotesi di un «attacco sovversivo contro l'Unità d'Italia e i suoi organi costituzionali». A colpi di «terùn». di Tommaso Montesano

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