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Matteo Salvini, "i sondaggi non servono", l'altro Matteo l'ha incastrato. La durissima lezione

Caterina Spinelli
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Salvini ha ragione, ma ha perso. Renzi ha torto, ma ha vinto. In Italia, salvo colpi di scena tipo arrivo degli Ufo, si realizzerà quello che con abilità sfacciata, e faccia come il culo, ha ordito sin da principio di questo agosto il Matteo fiorentino. Pareva sparito, a cuccia con la coscetta di pollo di un seggiolino, dopo aver collezionato una serie di batoste madornali. Ed ecco sembra Alessandro Magno dopo la battaglia di Gaugamela. Come dicono i libri di storia «anche se in pesante inferiorità numerica, Alessandro uscì vittorioso grazie alle sue superiori tattiche contro l' impero Achimenide nel 331 a.C.». Mercoledì, 13 agosto 2019 d.C, il Giglio, sia pur poco immacolato, non ha avuto nemmeno bisogno di esprimersi nell' aula del Senato. Poco prima, in conferenza stampa, aveva sfidato il Capitano a presentarsi in aula, preconizzando che non ne avrebbe avuto il coraggio. Una faccia tosta inaudita. Dopo aver dichiarato guerra in maniera persino esagerata ai Cinque Stelle, ricambiato di uguale moneta, e ancora ieri definito «avvoltoio» e «sciacallo» da Beppe Grillo, si è levato con il fazzoletto gli sputi di dosso, e ha puntato sull' osso con la polpa: il governo qualunque esso sia, pur di mandare a vuoto nell' arena parlamentare, con mossa da torero e la giravolta della muleta, il toro leghista furibondo, con i muscoli inutilmente luccicanti e le froge amaramente sbuffanti. E così punto sulla scapola dalla banderilla del Matteo fiorentino, il Matteo milanese si è precipitato, intervenuto, eccome. È stato splendido, un totale controllo dei suoi mezzi, tecnica retorica fantastica. A casa chi lo ha seguito ha pensato: cappotto, meraviglia, semplicità, acume, richieste sacrosante, democrazia allo stato puro. Se non fosse agosto, con 'sto caldo, saremmo andati a milionate con il cartello "Vergogna" fuori da Palazzo Madama. Ha guadagnato due punti di consenso, ma non si possono riscuotere, è come la lira adesso che c' è l' euro. Risultato: si è fatto fottere, dando per di più la soddisfazione di non fare il morto, esibendosi in ghirigori spettacolari ma senza bucare la pancia del nemico. Questi tra un po' gli aprono i porti. Il Capitano di Sventura ha nominato una volta, con dolcezza e un lieve rimpianto, Gigino Di Maio, ma sette-volte-sette Renzi, Matteo Renzi, e poi ancora Renzi. Lo ha dileggiato, dicendo tre volte «capisco la (sua) disperazione», perché se si andasse al voto non lo rivedremmo più, eccetera. Tutto giusto. La questione è che al voto non ci si va, e in questo modo gli ha costruito involontariamente un monumento di gloria infame, ma in Italia si sa basta essere famosi, anche se sei Barbablù poi all' Autogrill ti chiedono l' autografo e ti dicono non-mollare, tieni-duro. Questo stronzo, questo ex, ha vinto: è la traduzione di cotanto discorso. Concordiamo su valori, ideali, incazzatura, ci piace questo esporsi così perché si è in buona fede. Ma forse era meglio imparare dal destino parallelo del Mascalzone che in questi due anni di bastonate ha studiato il conterraneo Machiavelli e ha lavato le sue bende nell' Arno. STILI DIVERSI, STESSO SCOPO Sugli annali delle miserie italiane, nel capitolo dedicato a questo scorcio della nostra storia, lo scriveranno. Il duello di questi giorni è stato tutto, imprevedibilmente, tra i due Signori del 40 per cento. Tante cose li avevano già accomunati in questi anni. L' essere stati militanti a tempo pieno, sin dalla più tenera fanciullezza, nei rispettivi partiti. Entrambi li hanno raccolti da terra che parevano stracci, in quattro e quattr' otto li hanno trasformati in bandiere vittoriose, rottamando crudelmente predecessori e avversari, senza fare prigionieri. Due stili diversi per il medesimo scopo. Il toscano con la camicia bianca clintoniana da upper class newyorchese, il lombardo con giacche e calzoni distribuiti dalla Caritas per i profughi in festa. Ciascuno con specifica, efficace irruenza oratoria. Entrambi sono stati definiti aspiranti dittatori. Uomini soli al comando. Una cosa sola mancava per parificarne l' esperienza su fronti opposti: il sapore della sconfitta, assaggiata quando tutto urla hasta-la-victoria-siempre. Ora sono pari. Diciamolo: il futuro sta tutto con Salvini, la legnata al Matteo nordista l' ha rifilata il Palazzo e non il popolo, che continua a innalzarlo al rango di uomo solo al comando, ma solo nei sondaggi, che non sono banconote con cui compri potere. Se le infili nel tritatutto delle tattiche parlamentari, delle procedure, dei regolamenti, valgono come le lacrime dell' illusione. Il grande Giancarlo Giorgetti si era imposto la parte di Geremia; oseremmo dire, se il numero 2 della Lega non fosse molto ostile al gender, il ruolo di Cassandra. Aveva piazzato sulla sua scrivania di Palazzo Chigi la foto non di Mattarella e neppure quella di Bossi, ma quella di Matteo Renzi. Monito lampante rivolto al tenutario del Carroccio. Memento mori. Ricorda che sei polvere. Rimembra la dolorosa vicenda del tuo coetaneo di sinistra. Certo che la rammentiamo. Ecco Renzi, maggio 2014, trionfante alle Europee dove raccolse per il Pd il 40,6 per cento dei voti, con ascesa missilistica dal 25 per cento di Bersani. Mise in piedi una riforma della Costituzione e della legge elettorale che tutti, ma proprio tutti gli altri, accusarono di essere stata fatta a misura del suo regno imperituro. Sbagliò i tempi, i modi. Identica convinzione di Salvini che se il popolo ti porta in groppa poi sfondi le mura del Castello della Strega. Troppa presunzione. Gli italiani saltano sul carro del vincitore, questo è vero. Ma perdonano tutto meno che il successo. Aspetto un filino di debolezza, uno spiraglio infinitesimo nell' armatura, e ci infilano uno spillone avvelenato, poi nascondono la mano. E quando cadi ti ballano la tarantella sulle costole o ti appendono a piazzale Loreto. È stata la sorte di Renzi. Perse il referendum costituzionale a causa di un pasticcio sul Senato, che invece di cancellare voleva trasformare in un dopo lavoro dei sindaci. Soprattutto cercò l' uno contro tutti, e vinsero i tutti. Sprofondò a causa dell' ostentata solitudine da condottiero salvifico. Eppure aveva ancora il 40 per cento a essere con lui. Si dimise. Convinto di ottenere subito le elezioni da Mattarella, mandò avanti Angelino Alfano in televisione ad annunciare che avrebbe chiesto immediatamente agli italiani il responso delle urne. Tiè. Il suo Pd, la massa bisognosa di tre pasti al giorno e di morbidi sedili gli tese il trappolone e lo cosse nel brodino insipido di Gentiloni. LA SENTENZA DI GIANNI BRERA Renzi capì una cosa. Il popolo conta sì, ma poco. Con la nostra Costituzione sapere di avere dietro di sé il 40 per cento dei consensi a metà della legislatura, se non sei bravo con le procedure, se non usi le movenze e i sibili incantatori dei serpenti a sonagli, nel blandire i più e uccidere i meno tra i 945 parlamentari, sei fottuto. È come infilare le dita nella presa della corrente, ti fulmini. Matteo Renzi (allora) aveva, Matteo Salvini (oggi) ha il pieno diritto e forse persino il dovere morale di annunciare la crisi e domandare l' indizione dei comizi. Ma il campionato italiano non è come quello inglese, conta la tattica, decisivo è il contropiede detto ora ripartenza, lo 0 a 0 è il risultato triste ma perfetto. Mette melassa nei carburatori, blocca il motore della rivoluzione, si tira a campare che è meglio che tirare le cuoia. L' Italia non è un popolo di rivoluzionari, la marcia di Roma è stata tutto meno che una rivoluzione, quella borghese di Napoli (= Renzi) di fine '700 finì con impiccagioni multiple. Il popolo era dalla parte entusiasta di Masaniello (=Salvini), ma non fini bene. Matteo Salvini impari da Matteo Renzi. Faccia tesoro della sentenza assoluta di Gianni Brera quando elogiò l' Uruguay: si vince difendendo la sconfitta. Coraggio Matteo. Quale Matteo? di Renato Farina

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