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Giuseppe Conte fregato da Mario Draghi e Beppe Grillo: fedelissimi fatti fuori e faida M5s, la sua fine

Alessandro Giuli
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Giuseppe Conte è in un mare di guai, anche se finge che non sia così. L'ex premier è tornato a parlare in pubblico, all'assemblea di Articolo uno, cercando di rassicurare anzitutto se stesso sull'alleanza tra Movimento 5 stelle, Pd e Liberi e Uguali in vista delle prossime elezioni amministrative. La verità è che - come ha fatto capire anche Enrico Letta - non esiste alcuna alleanza strategica o intesa assicurata, fuori dalla polveriera grillina sulla quale è seduto da qualche mese il simulacro dell'avvocato del popolo. Sicché lui se l'è cavata con una supercazzola delle sue: in alcune realtà andremo assieme, in altre no, in altre ancora forse «l'importante è l'intensità della voglia di cercare soluzioni comuni. Mi interessa il risultato delle amministrative ma ancor più come ci arriviamo». Bisognava però guardarlo senza il sonoro, per comprenderne appieno il momento di difficoltà: stanco, imbolsito, con un'ombra di grigio per la prima volta affiorante nella tintura corvina dei capelli; perfino la voce, sempre vischiosa come carta moschicida, s' è fatta ora più esitante.

Ma chi gliel'ha fatto fare? Prima dell'arrivo di Mario Draghi, prima che Matteo Renzi mettesse il Quirinale nelle condizioni di sbarazzarsi di lui, Conte era in condizioni personali e politiche smaglianti: governava l'Italia piagata dalla pandemia con il piglio sicuro del gallo nel pollaio, gli italiani reclusi e imbavagliati, l'arco parlamentare bloccato dall'assenza di un'alternativa credibile alla dittatura sanitaria imposta dai giallorossi saliti al potere nell'estate del 2019. La popolarità continuava a crescere in misura direttamente proporzionale all'invadenza delle sue conferenze stampa, alle interviste a reti e testate unificate orchestrate dal Rasputin Rocco Casalino, alla compiacenza autolesionistica con la quale la dirigenza del Partito democratico guidato da Nicola Zingaretti indicava in lui un «punto di riferimento fortissimo» del fronte progressista. Plenipotenziario dispensatore di Dpcm grazie allo stato d'emergenza, gran cerimoniere del Recovery plan a villa Pamhpilj, azionista unico di un marchio promettente e già pronto allo sbarco sul mercato elettorale: sarebbe stato lui, Romano Prodi minore, il nuovo papa straniero capace di rinverdire gli antichi fasti ulivisti. Ma poi, giusto il tempo di una congiura a cielo aperto ordita dal bullo di Rignano che l'aveva lasciato a Palazzo Chigi rimuovendo dalla scena di governo Salvini, ed ecco consumarsi una tragedia umana e politica impensabile.

 

 

 


COME FANTOZZI - Come il ragionier Fantozzi che in una celebre scena cinematografica si vede privare d'ogni attributo dirigenziale nella propria stanza, dalla pianta di ficus alla sedia in pelle umana, in un lampo Giuseppe Conte è precipitato dai velluti risorgimentali alla scrivania-bancarella ricolma di microfoni arrangiata davanti a Palazzo Chigi per spiegare l'ovvietà della sua defenestrazione. Ed è proprio in quel momento che ha imboccato la direzione sbagliata: poteva insignorire, prendere cappello e minacciare sfracelli, cucirsi una lista su misura per rimanere centrale nella palude dei partiti e costringere i giallorossi a inseguirlo verso le urne anticipate. E invece si è fatto dettare il nuovo spartito da Beppe Grillo, padre ammattito e divoratore di anime, finendo per caricarsi sulle spalle il Movimento Cinque stelle nel frattempo divenuto come i Balcani dopo lo smembramento della Jugoslavia, terra di guerre civili e pulizie etniche sanguinarie.

 

 

 



 

 

MILIZIE GRILLINE - Risultato: i grillini si sono frammentati in milizie violentissime e concorrenti; Davide Casaleggio si è tenuto i dati sensibili di Rousseau e ha imbracciato il bazooka legale per ottenere i soldi dei parlamentari che gli spettano per statuto; il reggente Vito Crimi è formalmente decaduto dal suo ruolo per sentenza giudiziaria a beneficio di un imprecisato curatore speciale che potrebbe perfino sostituire la leadership di Conte con un direttivo nuovo; Grillo è appunto impazzito a causa dell'inchiesta per stupro che ha colpito suo figlio; in tutto ciò Alessandro Di Battista sta armando gli scissionisti e, zitto zitto, Luigi Di Maio s' è acquattato come una volpe nella confusione pentastellata in attesa di riprendersi il pollaio. Ma la cosa più interessante, e più umiliante per Conte, avviene dietro le quinte, laddove l'implacabile tecnocrate Draghi sta smontando pezzo per pezzo il potere del Deep State che aveva sorretto Conte. Caduto il super commissario Domenico Arcuri, rimescolata la nomenclatura del Cts, restava da bonificare il centro di gravità occulto: i servizi segreti, oggetto della vera contesa con Renzi e pegno di sopravvivenza politica dell'avvocato. Bene, con l'arrivo dell'ambasciatrice Elisabetta Belloni al Dis, in sostituzione di Gennaro Vecchione, l'ultimo contrafforte del contismo è crollato provocando - dicono i retroscenisti - una furibonda ma vana telefonata a Palazzo Chigi: «Questa proprio non me la dovevi fare. È davvero un colpo basso». Colpo alto, piuttosto, altissimo e letale, che costringe Conte nella sua giusta dimensione: amministratore di un ingovernabile condominio sempre più periferico, seduto a capo di una tavola spoglia dalla quale declama improbabili manifesti programmatici, invecchiato di cent' anni in pochi giorni. Ma ci penserà Fedez a non farlo rimpiangere.

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