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Matteo Salvini, retroscena: al lavoro sul nuovo partito conservatore, la mossa che preoccupa Giorgia Meloni

Fausto Carioti
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Liberale no, sarebbe troppo. Garantista però sì. Matteo Salvini sta cercando di creare una cosa che in Italia, sinora, si è vista una sola volta: un partito garantista di massa. Il garantismo è quello dei sei referendum sulla giustizia («Responsabilità civile dei giudici», «Separazione delle carriere», «Custodia cautelare» eccetera), che ha presentato ieri insieme a Maurizio Turco e ai radicali. La massa, oltre che nei numeri del suo partito, sempre primo nei sondaggi, è nel milione di firme che Salvini intende raccogliere nei mesi estivi, con i gazebo nelle spiagge e nelle piazze: il doppio di quelle necessarie perché i quesiti abbiano la speranza di essere votati (di mezzo c'è il giudizio di ammissibilità della Corte Costituzionale). Sarebbe una dimostrazione di potenza organizzativa, oltre che di consenso popolare.

 

 

L'illustre precedente è ovviamente quello di Forza Italia. E la scena di ieri, con Salvini ospite per la prima volta nella sede dei radicali, seduto al tavolo sotto ai cento ritratti di Marco Pannella, è una cosa che sarebbe stata normale se fatta da Silvio Berlusconi, che creò il partito assieme ad Antonio Martino e ci accolse i Marcello Pera, i Lucio Colletti e il resto dell'accademia liberale. Fatta dall'ex ministro dell'Interno suggella invece il passaggio a una nuova epoca, anche nel centrodestra: Salvini lavora per diventare il capo di un grande partito borghese, più conservatore anglosassone che sovranista ungherese, e il governo Draghi può essere il taxi arrivato al momento giusto per portarlo a destinazione. Non è la ipotetica fusione con Forza Italia di cui nel centrodestra tanto si parla e nemmeno il prodromo all'entrata nel Partito popolare europeo, ma un gran passo di avvicinamento. Anche perché una riforma della giustizia come quella delineata dai referendum, pur con tutti i limiti dello strumento, disegna l'identità di un partito e del suo capo. Oltre alla mobilitazione dei dirigenti locali e dei militanti «dalle Alpi a Lampedusa» per raccogliere le firme, presuppone mesi di martellamento degli elettori, affinché almeno la metà di loro vada ai seggi.

 

 

Non è, insomma, una battaglia estemporanea come quella che Salvini ha fatto contro il blocco dei licenziamenti, ribaltabile in un'istante tramite un tweet, ma una sfida che sfianca e lascia segni addosso (pure nei tribunali) a chi la combatte. E l'opzione fallimento non è contemplata, poiché equivarrebbe al suicidio (per i dettagli, citofonare Renzi). Del resto, nell'Italia post-Covid, dove c'è già la folla per dirsi draghiani e pure chi è all'opposizione sta bene attento a non sparare sul presidente del consiglio e probabile futuro capo dello Stato, differenziarsi dagli altri è un imperativo. Sulla lotta agli sbarchi degli immigrati Salvini fa il massimo che gli è possibile stando al governo, cioè assai meno di quanto può fare Giorgia Meloni. Il fatto che lui non insista sulla reintroduzione dei "decreti Sicurezza" spiega bene la situazione. Sulla giustizia, però, Salvini ha davanti un'autostrada aperta dal libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, dalle nefandezze che ogni giorno producono Csm, tribunali e procure e dal terrore che assale Pd e grillini appena si sfiora l'argomento. Su questa battaglia ora la Lega ha messo il proprio marchio e Salvini la propria faccia. Chi vuole unirsi si accomodi, ma nessun posto è stato riservato alla Meloni, che se vuole può solo accodarsi, alla pari di Luigi Di Maio e Matteo Renzi. Chi si chiedeva come Salvini avrebbe reagito alla crescita dei Fratelli d'Italia (20% delle intenzioni di voto) e al successo mediatico che la Meloni sta ottenendo grazie al suo libro (primo nella classifica della saggistica), ha avuto quindi una risposta. A lei il sovranismo "senza se e senza ma", a lui le vaccinazioni del generale Figliuolo e la «giustizia giusta» che fu di Pannella e Berlusconi. E chi ha più filo tesserà.

 

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