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"Mario Draghi ha un debole" per Luigi Di Maio, fonti autorevoli da Palazzo Chigi: così ha conquistato il premier

Alessandro Giuli
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Mario Draghi ha un debole per Luigi Di Maio. Dell'ex bibitaro di Pomigliano d'Arco il nostro premier apprezza perfino la buona sartoria di cui da tempo s' è rivestito nel suo ruolo istituzionale, quel suo profilo basso in Consiglio dei ministri, il contegno del rispettoso debuttante al tavolo dei potenti veri. Non che a Palazzo Chigi ci si limiti al giudizio estetico: il fatto è che Di Maio sta rivelando un'inconsueta efficacia nel manifestarsi come ministro prêt-à-porter. L'ultima traccia di una conversione ormai innegabile sta nell'intervista concessa alla Stampa lunedì scorso: un trionfo di bizantinismi, l'approdo dichiarato sul lido dei moderati, con l'obiettivo di farsi portavoce del «ceto medio che paga le tasse, che non si tira mai indietro e che porta ogni giorno sulle spalle il peso della collettività». Siamo al cospetto del manifesto programmatico di un centrismo che mira a «fare finalmente del Movimento una forza responsabile, organizzata e ragionevole». In una parola: dorotea. L'esatto contrario della conclamata inaffidabilità del filo cinese Beppe Grillo. A distanza di tre anni dall'insediamento al governo come capo delegazione dei populisti anti casta, tutto Vaffa e improvvisazione, l'inquilino della Farnesina è diventato un contrafforte inedito della dottrina Draghi e della pratica asciutta esibita dall'ex banchiere centrale europeo che ha sbaragliato la corte avvocatizia di Conte e - fedele all'estrazione gesuitica - sembra aver fatto proprio con Luigino il motto che lord Chesterfield impose come regola di vita al proprio figlio: «Suaviter in modo, fortiter in re», energicamente nella sostanza, dolcemente nei modi: puro distillato della Compagnia di Gesù.

 

 

Oggi appaiono lontanissime le pose grilline del ragazzo che proclamava di aver abolito la povertà con il reddito di cittadinanza; sbiadiscono nell'irrealtà le immagini del figurino naïf che aizzava le plebi e sorreggeva una maggioranza gialloverde euroscettica a trazione leghista... Ricordate poi le istantanee del vice presidente del Consiglio che scavalcava a destra Matteo Salvini espettorando perfino un «prima i romani!» quando la consanguinea sindaca di Roma, Virginia Raggi, si recava davanti a un campo nomadi per difendere i rom dall'aggressione di alcuni neofascisti? Acque reflue di un passato remoto in cui massimamente sospetta appariva anche l'imprudenza con cui Di Maio s' era messo a flirtare con la Repubblica comunista cinese. E qui arriviamo allo snodo essenziale della seconda vita del giovin ministro. Siamo certi che mai più accadrà di vederlo magnificare a suo modo il «discorso del Presidente Ping» - per il resto del mondo si chiama Xi Jinping - con gli occhi a cuore e il registratore di cassa sulla Via della Seta disegnata da Pechino come la nuova rotta di un imperialismo millenario. Le cose sono radicalmente cambiate: alla presidenza del Consiglio c'è un "over the top" chiamato a ricollocare l'Italia nell'alveo del secolare protettorato statunitense, l'interprete della più genuina visione occidentale puntellata da una maggioranza prevalentemente liberale, sviluppista in economia e garantista in fatto di giustizia.

 

 

NUOVO ABITO ISTITUZIONALE
Ma Luigi s' è appunto apparecchiato un nuovo profilo di garante istituzionale: dopo aver gestito la svolta europeista del Movimento con l'elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione di Bruxelles; dopo aver rotto con Salvini e amoreggiato per un anno e mezzo con l'eurosocialismo stracittadino di Nicola Zingaretti; dopo aver guidato con discrezione il testacoda filodraghiano della sua truppa; di recente Di Maio ha superato il punto di non ritorno scrivendo addirittura una ponderosa lettera al Foglio per scusarsi con l'ex sindaco renziano di Lodi massacrato anni fa dalla malagiustizia cavalcata dal M5s. Per non dire della fronda parlamentare tacitamente armata contro l'ingombrante Davide Casaleggio e il suo antiquato Rousseau. La democrazia diretta è diventata un ricordo adolescenziale; adesso, in nome della stabilità nazionale, è possibile triangola- re con i berlusconiani e i seguaci di Renzi in vista di un polo di centro che verrà, se verrà, quando le ulti- me pozzanghere populi- ste saranno prosciugate. Tutto ciò, va da sé, può riuscire anche grazie al sontuoso ministero oc- cupato da Luigi, lo scrigno della diplomazia di un'Italia tornata strategica nello scacchiere mediterraneo e riguadagnata alla democrazia occidentale sotto le vesti dello stato d'eccezione pandemico. Non è sfuggito, del resto, come Di Maio pochi giorni fa sia spuntato all'improvviso a Kiev per celebrare i combattenti del Donbass e assicurare protezione all'integrità dell'Ucraina concupita dalla Russia di Putin. E insomma avere alla Farnesina uno come lui, anima democristiana in abiti azzimati, sempre più attento a evitare sbavature e - bisogna ammetterlo - an- che secchione quanto basta per mostra- re segnali di miglioramento posturale, significa poter fare affidamento su un istinto di sopravvivenza capace di sopportare due drammatiche crisi di governo e disponibile all'obbedienza istantanea. Chiedere al riguardo all'entourage quirinalizio, che in fin dei conti gli ha prescritto quella minaccia scombiccherata di brandire l'impeachment contro Sergio Mattarella dopo le elezioni del 2018. Perché alla fine della fiera, si ragiona nello Stato profondo, un'ambizione educatamente sfacciata ma sempre addomesticabile è preferibile al narcisismo maniacale dell'avvocato di Volturara Appula.

 

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