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Roberto D'Alimonte, sondaggi e collegi: così Letta può fregare Meloni e Salvini

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Sbaglia chi pensa che la fotografia politica dei partiti oggi sia quella del 25 settembre, quando si tornerà alle urne. E forse sbaglia chi ha scommesso sulla crisi di governo considerando soltanto i sondaggi attuali, di fatto già vecchi. Lo sottolinea il professor Roberto D'Alimonte, analizzando lo scenario sul Sole 24 Ore. Il centrodestra, spiega il politologo grande esperto di sistemi elettorali, è sicuramente favorito e in netto vantaggio di almeno 10 punti sul centrosinistra, e al di là delle polemiche interne tra i leader meno frammentato del fronte progressista. Ma sul successo pieno di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, sottolinea, gravano alcune incognite. 

 

 

 

 

Rispetto al 2018, il numero di voti raccolti potrebbe non essere proporzionale al risultato in Parlamento, visto che saranno decisivi i collegi uninominali della Camera. Nella settimana dal 10 al 16 luglio, quindi prima della caduta di Draghi, i sondaggi attribuivano a FdI, Lega e Fi il 46,3% delle intenzioni di voto, mentre Pd, Azione/+Europa, Sinistra/Verdi e Iv si fermavano al 34,1%. Ci sono poi il M5s all'11% e Insieme per il futuro di Di Maio ancora da valutare. Escludendo una intesa tra  dem e grillini, la distanza tra i due poli è dunque di 10 punti. "Con questo distacco non c'è partita. Però, chi può dire oggi con certezza che questo distacco resterà lo stesso fino al 25 settembre? Molti fattori possono cambiare le cose", premette D'Alimonte. Innanzitutto, è da valutare quale effetto avrà la caduta di Draghi su M5s, Lega e Forza Italia, tenendo conto che "secondo un sondaggio recente di SWG il 50% degli intervistati preferiva che il governo Draghi restasse in carica". Possibile, dunque, che i tre partiti considerati i "colpevoli" della caduta del premier paghino dazio. C'è poi da considerare "l'effetto Draghi": l'indice di fiducia nel premier il 19 luglio secondo Euromedia era al 52% e l'associazione della sua "agenda" al programma del Pd potrebbe rappresentare un plus significativo. Altro elemento decisivo, l'astensionismo che supera abbondantemente il 40 per cento. Capire quanti di loro voteranno, e come, cambierà il quadro. 

 

 

 

 

Infine, l'incognita politicamente più grande: come si presenteranno le coalizioni davanti agli elettori? Unito il centrodestra (anche se pesa per ora l'incognita sulla scelta del "candidato premier"), sfilacciato il centrosinistra perso in una Babele di voci e di incastri difficili. E i tanti leader centristi, da Calenda a Renzi, da Di Maio alla Gelmini, come si muoveranno? Se riusciranno a trovare una quadra in appoggio al Pd, conclude D'Alimonte, "una offerta convincente al centro dello spazio politico potrebbe far lievitare quel 34% stimato oggi come base di partenza del polo di centro-sinistra".

"Quale combinazione di seggi proporzionali e maggioritari consente di arrivare alla maggioranza assoluta?", si domanda il professore scendendo nel suo campo, quello tecnico-elettorale. "Ottenendo il 46% dei seggi proporzionali, che più o meno corrisponde al 46% di voti, la destra dovrebbe ottenere il 65% dei seggi maggioritari per avere un totale di 104 seggi su 200. Questo significa che dovrebbe vincere 48 collegi su 74. Se invece i seggi/voti proporzionali fossero il 42% dovrebbe vincerne il 70%, vale a dire 52 su 74, per avere 103 seggi totali. Sono percentuali elevate ma non irraggiungibili". Al centrosinistra, invece, "basterebbe vincere una trentina di seggi uninominali per impedire al centro-destra di conseguire la maggioranza assoluta al Senato". Anche in questo caso, "missione difficile ma non impossibile".

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