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Enrico Letta, "ne bastano 30": il piano per rendere ingovernabile l'Italia

Fausto Carioti
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Trenta maledetti seggi conquistati nei collegi uninominali del Senato. Non uno di meno, se possibile qualcuno in più, perché i conti sono proprio sul filo. Incassare una trentina di senatori in quei difficilissimi 74 collegi da cui esce un solo eletto, quello che prende più voti, è adesso l'obiettivo principale di tutte le forze che si oppongono al centrodestra, ossia il Pd e i partiti e partitini di Carlo Calenda, Matteo Renzi, Giovanni Toti, Luigi Di Maio e Roberto Speranza. Diversi e al momento divisi, ma accomunati dall'obiettivo più importante.
A che servono quei trenta seggi? Non a vincere per andare al governo insieme, cosa alla quale nessuno di quei leader oggicrede davvero. Ma ad impedire che il centrodestra ottenga la maggioranza nel ramo del parlamento in cui dovrebbe avere vita un po' meno facile, ossia il Senato. Si avrebbe così l'ingovernabilità all'indomani del voto: con i sondaggi attuali, il massimo cui possano aspirare le sigle progressiste e centriste.

 

 



«MISSIONE DIFFICILE» - Nelle segreterie già da giorni si fanno i conti su quale sia la linea del Piave, il numero minimo di collegi uninominali in cui il centrodestra deve perdere per non raggiungere la maggioranza in Senato, e dunque per non riuscire a governare. Il professor Roberto D'Alimonte, fondatore del Centro studi elettorali della Luiss, ieri ha pubblicato sul Sole-24 Ore lo studio definitivo. «Basterebbe che il centro-sinistra vincesse una trentina di seggi uninominali», scrive, «per impedire al centro-destra di conseguire la maggioranza assoluta al Senato.
Missione difficile, ma non impossibile». Nulla impedirebbe, ovviamente, che le cose andassero al contrario, che cioè «la destra, grazie ai collegi uninominali e alle divisioni e agli errori dei partiti di centro-sinistra, possa conseguire una vittoria schiacciante».
I numeri che girano al Nazareno e nelle altre segreterie non sono diversi. Per capire la difficoltà di raggiungere quell'obiettivo, basta vedere le simulazioni appena diffuse dall'istituto Youtrend assieme alla società Cattaneo Zanetto: solo nel caso in cui il Pd riuscisse a costruire un'alleanza che tenga dentro tutti, dai Cinque Stelle a Calenda, riuscirebbe a vincere in 33 collegi uninominali, quanti ne basterebbero per lasciare al centrodestra 99 senatori, due in meno della maggioranza dell'aula.
Si tratta però di uno scenario irrealizzabile, perché la scelta di fare a meno di Giuseppe Conte e del M5S ormai pare presa: ad eccezione dei soliti pasdaran di sinistra (Giuseppe Provenzano, Andrea Orlando, l'inevitabile Goffredo Bettini e Speranza), nessuno vuole più avere a che fare con i grillini.
La conseguenza è che in molti di quei collegi uninominali ci saranno probabilmente anche candidati dei Cinque Stelle, la cui presenza potrebbe favorire il centrodestra.
Perché il succo del discorso è semplice: se i sondaggi non cambiano (e sarà interessante vedere quali effetti ha avuto la crisi di governo sulle intenzioni di voto), l'unico modo per sperare di strappare la vittoria completa al centrodestra sarà presentare in quei 74 collegi, dove Lega, Forza Italia e Fdi si schiereranno compatti attorno ad un unico nome, non più candidati in competizione (quello di Calenda, quello di Renzi, quello di Letta...), ma uno solo, su cui tutte le altre sigle, nel nome della continuità con il programma di Mario Draghi, possano convergere. È la strada che indica Matteo Richetti, senatore di Azione: «Lunedì lanceremo un manifesto per il fronte repubblicano. Nessuno pensa di andare da solo e precludere un tema di alleanze e di dialogo».

 

 

 

 

LETTIANI NEL CAOS - Il primo elemento caotico, però, è proprio il partito che dovrebbe mettere ordine. Nel Pd, il vicesegretario Provenzano e il ministro Orlando insistono perché si faccia una coalizione di sinistra-sinistra che riapra la porta a Conte, anche tramite qualche accordo di desistenza.
Ipotesi opposta a quella di Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, i quali lavorano perché nei collegi uninominali ci sia un unico simbolo che rappresenti tutti gli avversari del centrodestra, con l'unica esclusione di Conte e i suoi. È l'ipotesi caldeggiata anche da Pier Ferdinando Casini, che chiede di creare «un'area ampia di riformismo che vada da Letta a Renzi, da Speranza a Calenda». «Parole sagge», chiosa il senatore toscano Andrea Marcucci. Dentro al Pd ne discuteranno martedì, quando si riuniranno la direzione del partito e l'assemblea dei parlamentari. Tra chi spinge per creare la santa alleanza, molti invocano un federatore. Il nome è pronto: Beppe Sala. Già prima che la crisi scoppiasse, il sindaco di Milano si era detto disposto a dare una mano. A maggior ragione lo è adesso, dopo il "draghicidio". Non per candidarsi, essendo stato da poco rieletto, ma per mediare e convincere i riottosi. «Sala ha credibilità ed è l'unico federatore possibile», spiega un senatore dem. «Ha avuto Pd, Renzi e Calenda nella sua alleanza elettorale, parla ai fuoriusciti forzisti del Nord, come Renato Brunetta, ed ha uno stretto legame con Di Maio». Per lui, si tratterebbe di replicare su scala più grande il "Modello Milano": sinistra e centristi insieme, con i Cinque Stelle debitamente emarginati. Sarebbe, sebbene come regista dietro le quinte, l'ingresso di Sala nel teatro politico nazionale. Probabilmente molto diverso da come se l'era immaginato, ma per diventare il "nuovo Prodi" avrà tempo e occasioni migliori.

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