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Giorgia Meloni, che vergogna l'inchiesta usata come propaganda

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Iuri Maria Prado
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Non sarebbe necessario occuparsi della giustizia che ha revocato l'arresto dell'ex sindaco di Terracina, Roberta Tintari, se nei giorni scorsi i giornali non avessero riempito pagine e pagine, a cominciare dalla prima, per occuparsi della giustizia che invece aveva disposto l'arresto. Come al solito, sarebbe stato meglio per tutti - e ovviamente, innanzitutto, per la vittima di quel primo provvedimento - che l'indagine e il processo si svolgessero senza strepito e senza l'intermezzo inutile, anzi illegittimo, della privazione della libertà dell'indagata, una che ha visto cadere un buon numero delle imputazioni su cui avevano fatto chiasso i cazzari delle procure e su cui magari si poteva far luce prima, non dopo la decisione di sbatterla ai domiciliari.

 

 


Naturalmente adesso il medesimo giornalismo Onestà&Manette spiega che qualcosa rimane comunque in quel fascio di accuse, e pace sul fatto che quel residuo non avrebbe giustificato né le originarie misure cautelari- che infatti sono state annullate né, appunto, la fanfara mediatica che le rinfacciava nella campagna elettorale puntualmente abbeverata alla fontana giudiziaria. E ovviamente nulla verrà dal partito, il Pd, che reclamava le dimissioni della sindaca e dei consiglieri implicati e invitava gli indagati ad accettare così com' era il lavoro togato, e amen se ha comportato un pregiudizio, oltre che per la diretta interessata, per un'amministrazione travolta da provvedimenti a stretto giro rivelatisi in buona parte ingiustificati.

 

 

 

 

Non sappiamo né dunque possiamo dire nulla della fondatezza, o no, delle accuse rivolte a quegli amministratori, ma è un fatto che anche questa volta la politica e il giornalismo mobilitati alla difesa della società sporcata dalla corruzione si ritraggono e acquietano quando emerge che, su cinque allegazioni, quattro sono inconsistenti o almeno insufficienti a legittimare gli arresti commentati con l'ordinario applauso. Il fatto che se fosse capitato a gente della parte opposta il trattamento sarebbe stato analogo, per opera di avversari non meno responsabili di analoghi comportamenti quando la magagna capita agli altri (va detto: è un malcostume tipico, ma davvero non esclusivo della sinistra), non destituisce nemmeno di un pizzico la vergogna della propaganda maramalda con cui è stata usata contro Giorgia Meloni e il suo partito l'ennesima indagine in probabile prospettiva di ridimensionamento. In tutta la chiacchiera sulla necessità che la classe politica si ritrovi concorde almeno su qualche principio fondamentale, esigenza perlopiù richiamata a giustificare onorevolissime porcate, manca il richiamo a quel che dopo trent' anni di interferenza giornalistico -giudiziaria dovrebbe essere ovvio: e cioè che quando parte l'accusa a un politico o amministratore pubblico non ci si mette a tirare monetine, ci si informa, e magari ci si ricorda - e si ricorda ai propri lettori ed elettori - che in zona di sospetto non bisogna tenere solo i destinatari della pretesa punitiva dello Stato ma anche, e forse più spesso, quelli che la esercitano. 

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