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Enrico Letta, nomi horror in lista: perché ha fatto fuori i draghiani

Fausto Carioti
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Realizzare l'"agenda Draghi" dando un seggio sicuro alla pacifista rossa Laura Boldrini, che in parlamento si è rifiutata di votare in favore dell'invio delle armi a Kiev? Al compagno Nicola Fratoianni, che le 19 volte in cui è stato presente alle votazioni di fiducia ha sempre votato «No», e ieri ha attaccato di nuovo la scelta del governo di collocare il rigassificatore a Piombino? O magari ad Arturo Scotto, coordinatore del partitino Articolo Uno, che sino all’ultimo ha cercato di ricucire l’intesa con i Cinque Stelle, i primi killer del premier? E poi i Nicola Zingaretti, i Giuseppe Provenzano, gli Andrea Orlando e il resto dell’ala sinistra del partito, quelli per cui Giuseppe Conte era un dono del cielo alla causa progressista: tutti premiati per i loro meriti da Enrico Letta con una candidatura che è sinonimo di elezione certa. Fama di moderato immeritata, quella di cui gode il segretario, a giudicare dalle compagnie che si è scelto per accompagnarlo in parlamento. Anche perché, per ognuno di quelli cui ha garantito la rielezione, il capo dei democratici ha sacrificato un draghiano doc, un riformista, un moderato vero: non mettendoli in lista oppure candidandoli in collegi (al Nazareno c’è solo l’imbarazzo della scelta) che significano morte politica sicura. I personaggi color rubro antico, come l’ex segretaria della Cgil, Susanna Camusso, e i paracadutati dell’ultimo minuto, modello Luigi Di Maio, in paradiso, mentre quelli che hanno difeso Draghi e i suoi provvedimenti sono spediti all’inferno. 

 

 

 

NESSUN NEMICO A SINISTRA

C’entra, come dice Matteo Renzi, il «rancore personale» che Letta nutre nei confronti di quelli che erano schierati con l’ex sindaco di Firenze e, pur restando nel Pd dopo la scissione di Italia viva, non sono accorsi subito a baciare la pantofola del nuovo capo.Ma non è solo questo, c’è un motivo più profondo per cui Luca Lotti, uno dei sacrificati, può dire che «quelli che fino a pochi mesi fa sputavano veleno contro il Pd oggi si ritrovano quasi per magia un posto sicuro nelle nostre liste». Ed è la scelta di Letta di spostare il più possibile a sinistra l’asse del partito: una figurina come Carlo Cottarelli a fare da foglia di fico per strizzare l’occhio al ceto produttivo lombardo, e nel resto d’Italia l’imperativo di non avere nemici dal lato mancino. Il caso del deputato Stefano Ceccanti è esemplare. Cattolico, ex presidente della Fuci, costituzionalista apprezzato. Appena è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina, ha fatto ripubblicare un libro del filosofo Emmanuel Mounier, per spiegare agli altri credenti che «il cristiano ha il dovere di resistere allaforza con la forza»; legittimando così, dal punto di vista della morale religiosa, gli aiuti militari all’Ucraina. Sulla carta, il candidato ideale per un Pd che guarda al governo Draghi come modello da imitare; in pratica, Letta ha deciso di farlo fuori per schierare al suo posto, nel collegio uninominale di Pisa, proprio Fratoianni, che si è battuto per non inviare armi a Kiev e ha votato contro l’accoglimento della richiesta di adesione alla Nato presentata da Svezia e Finlandia. A Ceccanti è stato riservato il quarto e ultimo posto nel collegio proporzionale di Pisa, garanzia di non rielezione, e lì resterà salvo miracoli dell’ultima ora. Stesso trattamento riservato a Vincenzo Amendola, sottosegretario di Draghi con delega agli Affari europei, un altro dei pochi piddini non ideologizzati e dotati di cultura e competenze: Letta lo ha confinato al terzo posto nel collegio plurinominale di Napoli. «In un partito diviso per bande, dove l’ala sinistra ha stretto un patto di ferro col segretario», commenta chi nel Pd non ha apprezzato, «lui e Ceccanti pagano la colpa di non avere protettori».

 

 

 

APPUNTAMENTO AL 26 SETTEMBRE

Sono queste e le altre “esecuzioni sommarie”, assieme ai privilegi riservati agli esponenti schierati più a sinistra, che hanno spinto il ministro Lorenzo Guerini e gli altri moderati del partito, nella notte di lunedì, ad uscire dalla stanza della direzione, in modo da non votare simili liste («non prima che Letta e Guerini venissero alle urla», racconta chi c’era). Si consuma così, per mano del neodemocristiano Letta, la vendetta politica che l’area più rossa del partito voleva compiere da anni nei confronti dei renziani e dei riformisti. «Nel 2018 Renzi aveva fattolo stesso a ruoli invertiti», è la spiegazione non ufficiale che danno gli autori dell’operazione di “pulizia ideologica”. Con una differenza enorme, però: il fiorentino aveva appena vinto le primarie e il congresso col 69% dei voti, e rispettò questa percentuale e quelle delle correnti nella composizione delle liste; Letta, invece, ha accettato di tornare da Parigi solo a patto che il congresso non si facesse, perché aveva paura di uscirne a pezzi. In cambio, promise di fare liste elettorali bilanciate sul peso delle diverse componenti, senza rappresaglie personali o politiche: si è visto come andata. Se il 25 settembre il Pd non sarà il primo partito, l’indomani gli presenteranno il conto, e a farlo saranno gli stessi democratici: fuori dal Nazareno c’è già la fila.

 

 

 

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