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Elezioni, il lapsus rivelatore: cos'è davvero il governo per la sinistra

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Iuri Maria Prado
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Sfuggita significativamente di bocca a Dario Franceschini - il quale ha fatto del ministero della Cultura il proprio possedimento sotto quattro diversi governi - l'idea che non votare Pd significhi "sottrarre" voti a quel partito ha fatto su e giù dalla cima al fondo dei ranghi progressisti, ingrossandosi in un disciplinato concerto accusatorio verso i responsabili dell'illecito: "Se votate per quelli, ci sottraete i voti!"; "Ogni voto per quegli altri è un voto sottratto al Pd!".

 

 

È significativa, questa sloganistica, perché denuncia una concezione dominicale del rapporto tra eletto ed elettore, con quello che rispetto a questo vanta appunto un diritto di tipo proprietario: e col corollario che se la contesa per il risultato ottiene l'effetto, allora si tratta della violazione di quel titolo di proprietà e cioè di furto. Ovviamente, inutile precisarlo, il meccanismo vale solo in un senso: perché è "rubato" il voto che non va a sinistra, ma sarebbe legittima acquisizione democratica quella del voto improbabilmente guadagnato dalla sinistra a spese di qualsiasi controparte.

 

 

Che poi l'uso di questo termine ("sottratto") sia fatto principalmente nel corso della rissa tra il fronte centrocomunista di Enrico Letta e quello del cosiddetto Terzo Polo, non sposta e semmai riafferma i termini della questione: e cioè che un avvicendamento di potere che veda quella parte in posizione recessiva suppone inevitabilmente qualcosa di scorretto, un ingiusto depauperamento del titolare dei voti e dei ministeri e un indebito arricchimento di chi osa contenderglieli. È roba loro, tanto per capirsi.

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